Sicurezza una priorità
ma non siamo il far west

C’è in Italia un’emergenza sicurezza? Dipende dai punti di vista. Di sicuro non siamo la Svizzera, e nemmeno Salisburgo, la cittadina austriaca dove si registrano reati ogni morte di papa. Ma non siamo nemmeno in Sudafrica o ad Haiti, l’isola dei Caraibi dove è sufficiente un colpo di clacson per prendersi una fucilata in testa. Siamo in Italia, e i dati dicono che i reati comuni, a parte quelli sulla corruzione e i femminicidi, sono in diminuzione. Ma l’attuale governo (o più precisamente, una parte che lo sostiene) ne ha fatto una questione di emergenza ricorrendo alla decretazione, ieri convertita in legge con la fiducia alla Camera.

Tra l’altro il caso ha voluto che lo stesso giorno in cui la Camera votava il provvedimento un gommista di 57 anni, Fredy Pacini, uccideva un bandito con la pistola acquistata con regolare porto d’armi mentre tentava di sventare il 38esimo (dicasi 38esimo) furto avvenuto nella sua officina.

Pacini si è ritrovato davanti un uomo con il passamontagna mentre brandiva un piccone. Ha sparato 5 colpi alle gambe, uno dei quali però ha provocato la recisione dell’arteria femorale del malvivente, che ha perso la vita. Un caso quasi da manuale giuridico di legittima difesa, anche se il gommista è stato indagato dalla procura di Arezzo per eccesso di tale condotta (un atto dovuto).

Tutto questo è bastato per scatenare un clima di tensione intorno alla votazione del decreto sicurezza. Come se l’Italia fosse il Far West e si dovesse correre ai ripari il prima possibile. Non certo il clima migliore per valutare un atto che riguarda la protezione di milioni di cittadini e la sorte di centinaia di immigrati che hanno bussato da anni alle nostre porte, molti dei quali già perfettamente integrati.

L’impressione è che si tratti di una legge di bandiera, una legge della Lega naturalmente, così come lo era stato a suo tempo il disegno di legge anticorruzione, tanto caro ai Cinque Stelle.

Lo si è visto chiaramente al momento della dichiarazione di approvazione in aula. Dopo il via libera finale al decreto i deputati della Lega si sono lasciati andare a un «boato» di gioia per la soddisfazione. Nessun applauso, invece, da parte degli alleati di governo del Movimento 5 stelle. Un’immagine diametralmente rovesciata rispetto a quella scattata al momento del via libera - non definitivo - della Camera alla legge Anticorruzione. In quell’occasione erano stati i 5 Stelle ad applaudire, di fronte al gelo della Lega. In Aula erano presenti i big leghisti, con Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti seduti ai banchi del governo. Per il ddl Anticorruzione mancava Salvini, c’erano invece Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede.

La politica è anche una questione di immagine. Quella offerta in questi giorni parla di due partiti che sostanzialmente sono legati da un patto, anzi da un contratto, ma condividono ben poco di quello che votano. Un patto basato su un programma di governo a volte antitetico, un matrimonio di interesse da parte di due entità politiche alleate per convenienza più elettorale che politica, probabilmente pronte a sciogliersi quando uno dei due giocatori al tavolo del governo si accorgerà di aver guadagnato sufficiente consenso (e al momento il giocatore pare Salvini). È la politica bellezza, potrebbe far osservare qualcuno. Ma in fondo anche una maggioranza di governo, formata da alleati, dovrebbe condividere più a fondo un programma comune, esercitando maggiore analisi critica e facendo valere le proprie ragioni all’interno per migliorare le leggi da votare per il bene del Paese. E invece, senza entrare nei suoi contenuti, il disegno di legge anticorruzione e il decreto sicurezza convertito ieri hanno tutto il sapore di due bandiere utili ai fini della prossima campagna elettorale.

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