L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 08 Gennaio 2020
Sicurezza europea
non basta delegare
«Tuteliamo i nostri interessi quando chiediamo all’Ue di essere protagonista». Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio definisce il senso del vertice a Bruxelles con i colleghi di Francia, Germania, Gran Bretagna e l’alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell. Un’Unione Europea coesa è l´auspicio. Dalla caduta di Gheddafi l’Italia da sola fatica ad affermarsi nello scacchiere libico. Vanta antichi legami con la sua ex colonia ma sono lontani i tempi di Andreotti e di Craxi quando la politica mediterranea e quindi gli interessi vitali del Paese erano gestiti in prima persona e non demandati alla buona volontà altrui. Il segno di una decadenza che la decisione di Mike Pompeo di non comunicare nulla al governo di Roma all’indomani dell’assassinio del generale iraniano Qassam Soleimani vieppiù conferma.
Il segretario di Stato americano ha chiamato i ministri degli Esteri di diversi Paesi alleati ma non la Farnesina di Luigi Di Maio. Oggi il ministro degli Esteri sarà al Cairo per chiedere un gesto di buona volontà. Con quali argomenti non si sa, visto che Al Sisi appoggia il generale Khalifa Haftar. In termini morali è gratificante appoggiare un governo democratico sostenuto dall’Onu. Ma anche Fayez al-Sarraj si è stancato delle buone intenzioni e chiamato nei giorni scorsi telefonicamente da Roma si è negato.
In qualsiasi contesa l’avversario accetta la trattativa solo se l’interlocutore ha un potere contrattuale con caratteri di deterrenza tali da rendergli più conveniente la pace. È l’abc della diplomazia e la locuzione latina dello scrittore romano Vegezio ce lo ricorda: si vis pacem para bellum. Un macigno grava sulle spalle dei governi europei ed è l’indifferenza delle loro opinioni pubbliche. Abituati da decenni a delegare agli americani la responsabilità della sicurezza internazionale, i cittadini europei si trovano impreparati nella gestione dei loro interessi strategici. Nel caso Iran-Usa e nella crisi libica si determinano due effetti che incidono direttamente sulla vita economica dei popoli europei. La prima conseguenza è il possibile aumento del prezzo del petrolio, il che vuol dire che l’utente va a pagare al produttore di petrolio un’extra rendita petrolifera. La seconda è che la tensione politico militare genera incertezza sui mercati. Un calo degli investimenti e dei consumi determina un effetto recessivo e quindi una stagnazione dell’economia.
Il motivo lo si spiega con il fatto che l’aumento delle rendite petrolifere non viene reinvestito in attività che vanno a compensare in modo equivalente il calo della domanda. E ciò è particolarmente vero per gli europei che dipendono dal petrolio di Paesi terzi sui quali hanno possibilità di incidenza minime. Per gli Stati Uniti è diverso perché gli americani sono autosufficienti in ragione dell’estrazione del petrolio dal materiale scistoso. I compensi legati agli aumenti del prezzo vanno alle compagnie petrolifere e probabilmente non verranno reinvestiti. Al cittadino non resteranno dunque che le briciole ma il tutto rimane dentro i confini nazionali. Ed è questa la ragione che induce l’amministrazione americana a guardare al Medio Oriente con l’occhio delle multinazionali del petrolio senza una globale strategia geopolitica. L’equazione autosufficienza energetica uguale disimpegno politico nasce già con la gestione Obama. La differenza la fa la coniugazione ideologica: per gli obamiani l’aspirazione ad un mondo senza guerra, per i trumpiani la tutela dell’interesse nazionale, America first. Il risultato è cha la patata bollente resta in mano all’Europa. Non bisogna al riguardo farsi illusioni, gli svantaggi dalla mancata tutela americana andranno a cadere in modo diversificato sui vari livelli nazionali anche all’interno dell’Unione Europea. L’incertezza globale necessita di governi e di bilanci forti. L’Italia non ha né uno né l’altro. Perdere la Libia sarebbe il marchio della nostra debolezza.
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