Senza più risorse
la sanità si ammala

Sebbene tecnicamente si trattasse di un utilizzo improprio (altra stortura del sistema, non certo attribuibile all’utente), capita, nella civilissima Bergamo del terzo millennio, che un malato alle prese con uno scompenso cardiaco e in mano una «ricetta rossa» per un ricovero urgente, sia stato respinto da un paio di ospedali. «Butti pure via tutto - gli avrebbero detto nell’una e nell’altra parte -, è carta straccia: con quella non si va più da nessuna parte. Torni a casa, chiami il 118 e passi dal Pronto soccorso, poi si vedrà…».

Già, si vedrà. Perché in Italia, dove non c’è nemmeno la certezza del diritto e della pena, figuriamoci se esiste quella di un ricovero ospedaliero, benché richiesto dal medico curante. Certo può lasciare allibiti, ma il caso in questione non è comunque una rarità nel panorama assistenziale che abbiamo sotto gli occhi. Colpa di questo o di quell’ospedale? Sarebbe persino «bello» riuscire a dare a qualcuno questa responsabilità, ma le cose non stanno esattamente così.

La responsabilità ultima è di un sistema che, ormai quotidianamente - e da tempo -, mette in mostra tutti i propri limiti. Intendiamoci, stiamo parlando di un sistema riconosciuto tra i migliori del mondo, per giunta «universalistico» (che garantisce cioè assistenza a tutti i cittadini indistintamente), in una regione dove il modello istituito quarant’anni fa (deliberato nel dicembre del 1978, il Ssn è in funzione dal 1° luglio del 1980) è stato rivisto e ampiamente migliorato. Ma oggi più che mai, un sistema assistenziale così concepito è costosissimo e in un Paese come il nostro, dove il debito pubblico galoppa ogni secondo che passa (superando i 2.400 miliardi di euro) è difficile credere di poter proseguire ancora a lungo su questa strada. Un vero peccato, perché il principio ispiratore del nostro Servizio sanitario rappresenta un’indiscutibile punta di diamante nella costruzione di un vero Stato sociale.

Tuttavia le risorse sono finite da tempo e l’Italia (lo vediamo ogni giorno) non è più in grado di trovarne di nuove, se non a spot, e comunque utili quanto un cerotto per fermare un’emorragia dell’arteria femorale. Il problema è che senza risorse, la Sanità e la Medicina (ma anche l’Istruzione…) si ammalano seriamente. Senza vere risorse, ad esempio, non è possibile sostenere i costi di una popolazione di malati cronici destinata a crescere sempre di più: tra non molto, l’età media delle donne si attesterà attorno ai 90 anni, quella degli uomini a 85. E se a 50 anni i problemi sono legati alla menopausa piuttosto che alla prostata, in terza e quarta età parliamo invece di diabete, insufficienza renale, malattie cardiocircolatorie e neurodegenerative, i cui costi sono facilmente immaginabili da tutti.

Oggi, uno dei problemi più pressanti della nostra sanità è la mancanza (più che la carenza) di figure professionali adeguate, medici e infermieri in primis. Ma senza le giuste risorse, non è possibile bilanciare le dotazioni organiche degli ospedali alle reali necessità (lasciando proliferare le liste d’attesa, ad esempio), così come non è possibile sostenere i costi per incrementare gli accessi alle Facoltà di Medicina. Senza le giuste risorse, non è possibile mantenere alti gli standard delle apparecchiature e delle strumentazioni diagnostiche e chirurgiche necessarie per fare sempre meglio, e si sa quanto rapidamente oggi le nuove tecnologie diventino obsolete. Senza risorse, non è possibile fare ricerca, almeno a livelli accettabili, e senza un buon portafoglio è anche difficile, molto difficile, ipotizzare nuove progettualità.

E senza risorse, senza ricerca e senza progettualità, gli ospedali non possono essere né competitivi né tanto meno attrattivi, il che vuol dire che quando si è chiamati a sostituire un primario, le probabilità che si «muovano» quelli bravi sono pochissime, quasi nulle. Con il risultato che il percorso di crescita di un ospedale via via rallenta, fino a fermarsi. Senza soldi, chiamiamoli volgarmente così, è infine difficile garantire un’efficace medicina del territorio, quanto mai necessaria per sgravare il lavoro degli ospedali.

Certo, in alcuni casi una miglior organizzazione del lavoro consentirebbe un recupero di «energie», ma se la coperta è troppo corta, più di tanto non si può fare. Certo, una cura dimagrante dei «Lea» (le prestazioni offerte dal Ssn), eliminando il grasso superfluo, permetterebbe un ulteriore recupero di risorse, ma cozzerebbe con l’impopolarità politica della scelta (pari a quella della chiusura dei piccoli ospedali, a volte davvero necessaria). Certo, nuovi mezzi potrebbero essere ricavati da una stretta ai panni della sanità privata accreditata (tasto assai dolente), riequilibrando alcune disparità di trattamento sulle quali, almeno fino ad oggi, l’imprenditore privato ha «spinto» molto, facendo «cassa». Ma se fino a qualche anno fa lo spazio dato ai privati accreditati poteva essere rivisto e in qualche modo contenuto, oggi questa operazione potrebbe celare al suo interno un duplice problema. Il privato è così parte integrante del sistema sanitario che cercare di sfilarlo potrebbe persino rivelarsi un’arma a doppio taglio. In seconda battuta, resta comunque l’unico soggetto ancora in grado di investire in sanità. Ma discuterne non è un reato, e farlo serenamente potrebbe essere utile a tutti.

E il paziente con lo scompenso? È stato così paziente che l’hanno premiato: una compressa di diuretico in più, al proprio domicilio. Casa, dolce casa…

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