Sei mesi contro vento
Serve unità d’intenti

E così finalmente il cerchio sta chiudendo nell’ultimo giro di vite anti-Covid, quello che divide l’Italia in zone a maggiore o minore tasso di contagio e, in base a quello, dispone il livello delle restrizioni. Il lunghissimo scaricabarile tra governo e Regioni è andato avanti fino all’ultimo compromesso nella speranza che davvero questo Dpcm riesca a fermare l’Italia sulla soglia di un nuovo lockdown nazionale uguale a quello di marzo: i record dei decessi, 353 in un giorno, e dell’indice di contagio non inducono a previsioni ottimistiche. Non che questo blocco parziale e territoriale sia peraltro indolore, tutt’altro, e si capisce dunque perché le Regioni, anche quelle che hanno fatto un referendum per ottenere una autonomia rinforzata, abbiano preteso che l’impopolarità se la caricasse Giuseppe Conte con i suoi ministri.

Le zone rosse avranno bisogno di una iniezione aggiuntiva di «ristori» per colmare il crollo dei fatturati e questo porterà fatalmente ad un nuovo scostamento del deficit: l’ultimo decreto del ministro del Tesoro Roberto Gualtieri ha previsto altri cinque miliardi da distribuire, ora potrebbero servirne almeno altri due, e con questo avremmo portato il rapporto deficit-Pil al 10,8 per cento, al massimo cioè previsto dal documento finanziario del governo. C’è da ritenere che, più crescerà la spesa, più si farà impellente la richiesta di ricorrere al Mes con i suoi 37 miliardi a tasso zero, e meno credibile la resistenza di quanti continuano a rifiutare una tale decisione per ragioni difficilmente comprensibili.

Il Pd spinge, anche Gualtieri si è messo a vento e i 5S, nello sbandamento dei loro gruppi parlamentari, faticano a tenere il punto.

In tutto ciò il governo, alle prese con le Regioni e con il caos delle competenze «concorrenti» tra centro e territori, cerca – probabilmente fuori tempo massimo – la collaborazione dell’opposizione. Che naturalmente si ritrae: ha già rifiutato la proposta di una «cabina di regia» fatta senza troppa convinzione da Conte, e indica il Parlamento come il luogo ideale del confronto. Salvo concedere, per merito di Berlusconi soprattutto, un atteggiamento «ragionevole» e non barricadero, ma non di più: l’astensione dell’altra sera sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio sono una traccia di questa minima rettifica che Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno accettato non proprio volentieri.

A tenere insieme tutto e tutti è ancora una volta Sergio Mattarella (ogni giorno di più in odore di bis) che prima ha convinto le Regioni ad accettare un compromesso col governo, poi ha indotto Conte a tendere una mano all’opposizione, e infine ha ottenuto dal centrodestra un atteggiamento non ostruzionistico. L’obiettivo del Capo dello Stato è chiaro ed evidente: di fronte a tempi che si annunciano ancor più difficili e soprattutto non brevi, vuole che istituzioni e partiti siano il più possibile uniti dal senso di responsabilità e che non si facciano fagocitare dal calcolo di bottega, dal mero interesse elettoralistico. Ormai la posta in gioco è troppo alta per consentire giochi e giochetti: i prossimi sei mesi saranno da trascorrere tutti contro vento e occorre che l’Italia sia unita, non ceda al panico e tantomeno alla piazza: non tanto quella dei cittadini preoccupati del lavoro, quanto delle forze sfasciste che puntano al tanto peggio tanto meglio. L’Italia rischia un incattivimento generalizzato difficilmente governabile soprattutto da parte di una classe politica che non ha, diciamo, nell’autorevolezza e credibilità i propri punti di forza.

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