Se gli Usa sono contro le istituzioni globali

MONDO. Donald Trump non ha ancora rimesso piede nello Studio Ovale, ma il suo team è già al lavoro per sferrare un attacco frontale alla Corte penale internazionale dell’Aia.

La ragione? La decisione della Corte di emettere mandati di arresto contro Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, e Yoav Gallant, ex ministro della Difesa. Un gesto che, nell’ottica di Trump e dei suoi, non inficia solo la giustizia, ma è anche una provocazione. Non stupisce che Trump abbia reagito con la sua consueta teatralità. Definire «antisemiti» i giudici della Corte dell’Aja è un cliché ripetuto fino alla nausea dagli ambienti filo-israeliani. Eppure, c’è qualcosa di più profondo: una sfida aperta all’idea stessa di giustizia internazionale. Gli Stati Uniti, insieme a Russia e Israele, non hanno mai ratificato lo statuto della Corte, posizionandosi al di fuori del consesso delle 123 nazioni che invece lo hanno fatto, tra cui persino il Regno Unito, pronto a rispettare l’ordine di arresto nonostante la storica alleanza con Washington, quella «special relationship» che dura dai tempi di Churchill. Ma per i sudditi di Sua Maestà la grande tradizione giuridica prevale su qualunque alleanza.

Le proposte sul tavolo di Trump

Le proposte sul tavolo trumpiano sono tutt’altro che concilianti. Si parla di sanzioni personali contro i giudici e i funzionari, ma anche contro i loro familiari. Tra l’altro sul presidente della Corte Kharim Khan pendono ombre di molestie sessuali ma secondo l’avvocato britannico si tratta di una campagna di disinformazione orchestrata per delegittimarlo. Una strategia, quella americana, che trasuda intimidazione e arroganza, mirata a mettere sotto pressione un’istituzione già fragile. Nel frattempo, Mike Walz, candidato di Trump per il ruolo di Consigliere per la sicurezza nazionale, ha rispolverato il solito mantra via Twitter: «La Cpi non ha credibilità. Israele ha difeso il suo popolo dai terroristi genocidi. Aspettatevi una risposta forte a gennaio».

I genocidi nella storia

Ma quanti sono, in questa storia, i genocidi? A Gaza, le stime parlano di 43mila vittime civili, per lo più donne e bambini, uccisi in risposta alla strage di Hamas. Un’ecatombe biblica che Papa Francesco, che ha chiesto di indagare se si è trattato di genocidio, esattamente come vuol fare la Cpi, non esita a definire «inumana». Nell’istanza di condanna presentata dal Sudafrica all’altro tribunale olandese, la Corte internazionale di giustizia, che fa capo all’Onu, ci sono dichiarazioni di esponenti del governo Netanyahu che evocano una logica genocidaria, oltre alla distruzione di oltre 355.000 case, lo sfollamento dell’85% della popolazione e il collasso del sistema sanitario. Toccherà alle due corti stabilirlo, se gliene sarà data la possibilità. Ma l’ostilità americana verso i tribunali internazionali rende questo processo più simile a un’utopia che a una realtà giuridica che vorrebbe indagare sull’elevato numero di morti, mutilazioni, spostamenti forzati e distruzioni sul campo che, unitamente all’assedio, farebbero ipotizzare un genocidio in corso e in espansione.

La base Unifil colpita

Del resto, gli Stati Uniti hanno un curriculum di delegittimazione sistematica delle istituzioni globali. Dalle Nazioni Unite, paralizzate dai veti di Washington, al Wto, lasciato agonizzare, la Casa Bianca si arroga il ruolo di giudice e parte in ogni conflitto. È il paradosso di un Paese che si autodefinisce «gendarme del mondo» ma che, quando si tratta di rispondere al diritto internazionale, si rifugia nel suo isolazionismo ipocrita. Il risultato è un mondo in fiamme. Milioni di vittime in Ucraina, decine di migliaia di morti a Gaza, una Beirut in rovina. Le Nazioni Unite sono sempre più delegittimate, e ieri missili Hezbollah hanno colpito una nostra base Unifil. L’America, che dovrebbe spegnere gli incendi, preferisce alimentarne le fiamme con la benzina della propria arroganza geopolitica.

La verità è che il sistema internazionale non può più reggere su questo equilibrio precario. Netanyahu, da parte sua, non si limita a rifiutare le accuse, ma rilancia con l’usuale retorica: accusa i giudici di antisemitismo e si paragona persino a Dreyfus, l’ufficiale ebreo ingiustamente accusato di spionaggio nella Francia di fine Ottocento

La verità è che il sistema internazionale non può più reggere su questo equilibrio precario. Netanyahu, da parte sua, non si limita a rifiutare le accuse, ma rilancia con l’usuale retorica: accusa i giudici di antisemitismo e si paragona persino a Dreyfus, l’ufficiale ebreo ingiustamente accusato di spionaggio nella Francia di fine Ottocento. Una mossa studiata per gettare discredito su chi osa opporsi al suo governo. Ma chi ha letto Primo Levi conosce davvero la Shoah e sa bene che questo non è antisemitismo. È solo una strumentalizzazione volgare e offensiva gettata in faccia come uno stigma contro chiunque osi mettere in dubbio la condotta del governo di Israele, che svuota quella parola del suo significato sacro. Un gioco sporco che il resto del mondo, ormai, ha capito da un pezzo.

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