Se la pace diventa motivo di scontri

È fisiologico che i partiti italiani abbiano posizioni diverse su come venire a capo del conflitto russo-ucraino. Ma al netto di alcune dichiarazioni recenti pro Putin di Silvio Berlusconi, poi corrette, e posizioni passate filo Cremlino di Matteo Salvini, in Parlamento non siedono forze dichiaratamente a favore di Mosca. Il discrimine è sull’invio di armi a Kiev e sulle sanzioni alla Russia.

Sabato scorso a Roma è sfilata un’affollatissima manifestazione per la pace (100mila persone per gli organizzatori) alla quale hanno aderito 600 sigle della società civile, mentre a Milano erano in 5mila per l’appuntamento del Terzo polo. Nelle due piazze erano presenti leader e rappresentanti dei partiti (in particolare Conte e Letta nella capitale, Renzi, Calenda e Casini nel capoluogo lombardo) che non si sono sottratti ai microfoni e ai taccuini dei giornalisti, dando poi adito a repliche e accuse incrociate. Sarebbe stato meglio tacere, lasciando la ribalta ai manifestanti senza cadere nel meccanismo mediatico perverso per il quale ogni dichiarazione di un capo di partito diventa notizia. Gli stessi capi quel meccanismo del resto lo conoscono ma non si sottraggono perché oggi la partita del consenso si gioca anche a parole, in uno stillicidio di dichiarazioni che in alcune occasioni andrebbe fermato, come nel caso delle iniziative di sabato scorso.

A parte i guerrafondai veri, quelli che sui conflitti lucrano, e i fondamentalisti, ogni persona di buon senso non può che desiderare la pace. Tanto più per una contesa come quella che si gioca in Ucraina, con ricadute pesanti in Europa ma non solo, economiche e politiche. Ma il dibattito è ad alto tasso ideologico, per il ruolo della Nato e degli Usa. Nella nostra opinione pubblica (a sinistra e a destra) persiste un sentimento anti americano, così come atlantista a prescindere. Nel Paese ad alta litigiosità, sono posizioni che tolgono lucidità nell’analisi del conflitto, nella sua genesi e nei suoi possibili sbocchi. L’invio di armi a Kiev non può essere la soluzione, né l’umiliazione della Russia. Ma non basta sostenere questa evidenza per sentirsi a posto. Papa Francesco, spesso citato a sproposito, ha più volte dichiarato che «difendersi è legittimo». Nel maggio scorso in un’intervista disse: «Non so rispondere, sono troppo lontano, all’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini di armamenti». Un pensiero umile, dove pesano le parole «sono troppo lontano». Chi è vicino, cioè gli abitanti del Paese martoriato, le organizzazioni non governative, le associazioni di volontariato impegnate nei soccorsi e i giornalisti, sono testimoni delle brutalità deliberate commesse dall’esercito del Cremlino sui civili. Da Bucha a Irpin, da Mariupol a Borodyanka a Izyum, residenti indifesi hanno subito atrocità. Lo testimoniano le fosse comuni con centinaia di corpi che portano il segno di torture e un inequivocabile dossier dell’Onu che denuncia i crimini di guerra. Non a caso gli ucraini dicono che combattono non solo per difendere la loro terra ma la vita.

La premessa della pace è un serio negoziato. C’è chi chiede rinunce territoriali a Kiev in nome dell’obiettivo. Ma la Costituzione russa di recente è stata emendata con un articolo nel quale si dichiarano per sempre incedibili le quattro regioni ucraine annesse a Mosca con i referendum farsa, due non a maggioranza russofila (Zaporizhzhia e Kherson). Rappresentano il 20% del territorio del Paese invaso, dove veniva prodotto il 25% del Pil. Giornalisti moscoviti dissidenti sono venuti in possesso di un documento del Cremlino, un piano per trasferire migliaia di buriati e tuvani poveri, in cambio di soldi, in questi due Oblast per rinfoltire la presenza russa. Il negoziato, quando avverrà, sarà comunque complicato e difficile. Putin non ha mai chiuso guerre con la trattativa ma sempre con la vittoria militare (in Cecenia, Georgia e Siria). Portarlo a negoziare è un risultato che non si può comunque escludere a priori. Se non va umiliata la Russia, non va però umiliata nemmeno l’Ucraina.

La pace non coincide con la fine dei conflitti. È una condizione che richiede riconoscimento dei diritti violati, dei torti subiti, riconciliazione tra gli Stati ex belligeranti, il perseguimento e la condanna dei criminali di guerra e dei loro mandanti. Non c’è pace senza giustizia. Altrimenti, come insegna la storia, si pongono le premesse del revanscismo con la riaccensione degli scontri armati. In Ucraina un primo passo importante sarebbe la tregua, per dare respiro al popolo aggredito. Ne ha diritto.

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