Se l’Italia non investe sull’auto elettrica

ITALIA. Al porto di Livorno la Guardia di finanza ha sequestrato 134 Fiat Topolino in arrivo dal Marocco. Gli adesivi con la bandiera italiana riportati sull’autovettura inducono a pensare che il veicolo sia prodotto in Italia. Si chiama «italian sounding» e la legge italiana non lo permette.

Continua così la polemica con Stellantis accusata dal governo di non sostenere la produzione di autovetture in Italia. La casa automobilistica ha subito disposto la rimozione del tricolore così come precedentemente aveva eliminato il nome «Milano» dall’ultima creazione Alfa Romeo ribattezzandola in «Junior». Ripicche che nascondono il vero problema: la capacità del sistema Italia di attrarre investimenti nel settore automobilistico. La transizione energetica comporta il passaggio di un’intera filiera ai nuovi prodotti a trazione elettrica. I costi sono enormi e i grandi gruppi europei faticano a stare al passo. Le nuove elettriche cinesi sono molto più a buon mercato perché hanno raggiunto economie di scala in un Paese di un miliardo e mezzo di abitanti. A Pechino sono partiti prima e non si sono cullati sugli allori come per esempio i produttori tedeschi. Stellantis risente anch’essa di mancati investimenti nei microchip e nelle batterie. Da qui il problema di trovare siti produttivi dove i costi siano competitivi.

Il Marocco per esempio o la Serbia dove prima si costruiva la 500 L. In questi Paesi il costo dell’energia è minimo, i salari più bassi che in Ue, la burocrazia non intralcia e lo Stato agevola con basse imposte. Una partita persa all’istante per l’Italia. Lo Stato francese ha più carte da giocare perché è presente nell’azionariato. Se si deve scegliere di tagliare posti di lavoro o creare nuovi siti produttivi, può far sentire discretamente la sua influenza. Anche perché a Torino nulla si muove e il futuro di Mirafiori appare incerto. Mentre si combatte questa guerra tra poveri, gli scenari stanno cambiando. Per esempio l’idrogeno. Si pensava che fosse il carburante del futuro, meno ingombrante delle batterie elettriche e più performante. Peccato che se vogliamo rispettare gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile non basta l’elettricità necessaria per la produzione di idrogeno verde. L’energia da rinnovabili non basta per far andare avanti gli impianti che devono sviluppare i processi di separazione della molecola dell’acqua. Le rinnovabili hanno il problema dell’intermittenza e quindi abbisognano di una produzione di base che sia costante. Come per esempio avviene con le centrali a gas o con l’atomo. Oppure con batterie ad accumulo in grado di immagazzinare l’energia in eccesso.

Il governo tedesco ha preso atto di questa strettoia produttiva e di fatto ha indicato per gli autotreni la trazione a batterie come al momento prioritaria. Il trasporto pesante incide in Germania sull’inquinamento atmosferico per l’8%. Una percentuale che va abbattuta se si vuol realizzare entro il 2030 la decarbonizzazione. Si pensava anche di spostare il traffico sui binari ma l’incidenza di questo passaggio dalla gomma al ferro arriva al massimo al 6%. Troppo bassa. Le ferrovie non sono attrezzate e per le necessarie infrastrutture ci vogliono molti anni di lavoro. Al porto di Amburgo stanno smantellando il centro più grande di distribuzione di idrogeno in Germania perché diseconomico. È un giro di volta sanzionato dal Consiglio dei cinque saggi che assiste il governo di Berlino nella scelta della politica economica. L’allestimento della rete capillare di punti di ricarica risulta essere più veloce dell’efficientamento ferroviario. La rivoluzione verde ha bisogno di tempo per diventare competitiva e per Paesi ancora in ritardo come l’Italia nulla è perduto.

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