Se la legge è lontana dalla realtà dei fatti

ITALIA. L’ultima legge approvata dalla Camera in materia penale ha creato (li ha contati su il Foglio Ermes Antonucci) la bellezza di 24 tra nuovi reati, aggravanti e aumenti di pena.

I detrattori l’hanno chiamata legge «retequattrista», perché le nuove fattispecie sembrano state pensate su misura dei format televisivi di attualità della rete, dove il tema sicurezza va per la maggiore. Al di là delle polemiche, sembra difficile pensare a qualche tipo di convergenza tra gli ultimi ritrovati legislativi in materia penale e la cultura liberale dalla quale proviene il nostro Guardasigilli Carlo Nordio. Ci deve essere qualche cortocircuito nei palazzi romani, che fa prevalere sempre e comunque (l’opposizione di Forza Italia non sembra aver inciso come annunciato, per ora) il concetto che certezza della pena debba significare per forza certezza del carcere, con buona pace delle pene alternative.

«Continua a essere diffusa l’idea che la severità delle pene sia direttamente proporzionale all’efficacia nel garantire la sicurezza» ha scritto Mauro Magatti sul Corriere della Sera. C’è un problema culturale, innanzitutto, pre politico. Anche se e a pensar male, si può anche argomentare che è molto più semplice e redditizio in termini di consensi elettorali modificare qualche articolo del codice penale, sbandierando l’operazione «tolleranza zero», piuttosto che mettere i ferri nei due bubboni in procinto di scoppiare, quello del sovraffollamento degli istituti penitenziari, incompatibile con qualsiasi tentativo di rieducazione, e quello dei minori non accompagnati che sempre più finiscono nelle maglie della Giustizia.

A Bergamo, lo dimostrano le due pagine dedicate oggi in cronaca, per fortuna da almeno trent’anni prevale un approccio pragmatico che dista mille miglia dai proclami di stampo populista che vanno per la maggiore. Ci sono volontari, associazioni e realtà del terzo settore che dialogano con il carcere e costruiscono percorsi di riabilitazione per i detenuti. E pare, per fortuna, che questo sistema ormai collaudato, in cui la Caritas diocesana ha un ruolo proattivo, sia impermeabile ai chiari di luna della politica. Tanto che le buone notizie non mancano, come l’apertura di un nuovo corso scolastico superiore per le detenute della sezione femminile, con la collaborazione dell’istituto Caniana. E poi ci sono le conferme: il corso dell’istituto alberghiero di Nembro per il maschile, la scuola media e l’area alfabetizzazione, il forno in carcere della cooperativa Calimero, gli inserimenti lavorativi e abitativi, le mediazioni culturali.

Il principio guida di tutte queste iniziative è il tentativo di integrare i detenuti in un sistema sociale che, quando saranno uomini liberi (perché prima o poi tutti usciranno), non li renda di nuovo capaci di delinquere. Per farlo c’è un unico modo, e non è quello di chiuderli in cella per venti ore al giorno e dimenticarsi di loro dopo la sentenza. Secondo uno studio del Cnel, nel 2023 in Italia, su 18.654 detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale, il numero di coloro che tornano a commettere un reato è al 2%, contro una media generale che sfiora il 70%. In un bellissimo documentario degli anni Ottanta sui ragazzi di strada di Seattle, «Streetwise», proiettato sabato sera a Redona nell’ambito del festival «Snark», uno dei giovanissimi protagonisti, ripreso mentre si tuffa nelle acque del porto, dice questa frase: «Adoro volare. C’è pace e tranquillità, niente intorno a te tranne il cielo azzurro e limpido. Nessuno che ti disturbi. Nessuno che ti dica dove andare o cosa fare. L’unica cosa brutta del volare è dover poi atterrare in questo dannato mondo».

Gli atterraggi possono fare molto male, soprattutto se c’è buio sulla pista e non c’è nessuno a indicarti la strada, magari perché troppo impegnato nel fuoco di contraerea. Viceversa, anche solo un piccolo faro nella notte, per chi ha smarrito la bussola, può cambiare una vita, molte vite.

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