Se la crisi demografica
entra anche in azienda

Gli ultimi numeri Istat sull’occupazione diffusi ieri contengono un’evidenza tanto banale quanto problematica. In quindici anni i lavoratori in Italia con più di 50 anni sono quasi raddoppiati, salendo dai 4,8 milioni di gennaio 2004 agli 8,5 milioni di quest’anno. Di pari passo, la fascia dei giovani lavoratori fra i 25 e i 34 anni si è assottigliata, scendendo da 6,02 milioni a 4,06 milioni. È la fotografia ormai purtroppo scontata di una popolazione che invecchia fuori e dentro i posti di lavoro, ma è anche lo specchio di una disoccupazione giovanile che non accenna ancora ad arretrare.

È di poche settimane fa l’inchiesta del nostro giornale sul declino demografico che si registra anche in provincia e fra i dati emersi ce n’è uno che riguarda proprio il capovolgimento della piramide dell’età: nel 1988 il maggior numero di residenti in Bergamasca aveva 23 anni; tre decenni più tardi, l’età più rappresentata è quella dei 51enni. Come tra i lavoratori.

Se da una parte, quindi, è scontata la fotografia che emerge dagli aggiornamenti Istat, dall’altra è necessario farsi carico della questione e immaginare come affrontarla. In media, i più giovani hanno sprint ed entusiasmo e gli adulti di mezza età o poco più hanno esperienza. Un primo tema di gestione dei luoghi di lavoro è accompagnare questa staffetta generazionale, con una doppia attenzione.

Da un lato l’innalzamento dell’età pone problemi oggettivi di resistenza alla fatica. Già anni fa grandi case automobilistiche si erano poste la questione e le cronache ricordano, ad esempio, che in stabilimenti Bmw vennero installati montacarichi per agevolare il lavoro dei senior evitando di affaticare la schiena.

Dall’altro lato, c’è il problema fondamentale di fare spazio ai giovani. È vero infatti che il mondo del lavoro rispecchia né più né meno la struttura demografica della popolazione. Ma è altrettanto vero che si è creato un collo di bottiglia in entrata e la disoccupazione giovanile si mantiene a livelli alti: i dati di ieri dicono che in Italia è salita ancora di qualche decimo di punto, passando da 32,8% a 33%, a fronte di una disoccupazione media complessiva sostanzialmente stabile al 10,5%. La disoccupazione fra i giovani è ancora superiore di quasi 14 punti percentuali rispetto ai livelli pre-crisi, anche se si è ridimensionata dai picchi degli anni più duri della recessione, quando era arrivata a superare il 43%.

Allargare la strada che porta i giovani nel lavoro significa aumentare il turnover con i senior in uscita e, soprattutto, creare nuovi posti. Sul primo versante, quota 100, arrivata alle 12 di ieri a 78.432 domande in tutto il Paese, di cui 1.036 in Bergamasca, potrà dare un contributo piccolo, con in aggiunta un problema di sostenibilità economica nel tempo, tanto più che l’Istat ha rivisto al ribasso le stime sul Pil mentre deficit e debito salgono.

La sfida più impegnativa si gioca invece sul secondo versante. Creare occupazione presuppone investire: come Paese, che ha bisogno di infrastrutture e servizi, e come sistema economico delle aziende, che hanno bisogno però di un contesto di fiducia e magari di una politica industriale di cui non si sente parlare ormai da tempo, fatto salvo per il capitolo specifico dell’evoluzione 4.0 del fare impresa.

Il tema degli investimenti resta centrale. Così come resta centrale il raccordo tra formazione e aziende e diventa davvero difficile capire i tagli all’alternanza scuola-lavoro, sistema che poteva aver bisogno di ulteriori miglioramenti rispetto a quanto fatto negli ultimi anni, ma certo non di essere sacrificato. Anche perché il paradosso di una disoccupazione giovanile che cresce, mentre alcuni profili professionali non si trovano rimane e scuola e imprese restano le protagoniste fondamentali di un gap da colmare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA