Se il politico
fugge dai social

«Bye Bye, Twitter und Facebook». Così ha scritto sulla sua homepage Robert Halbeck, leader nazionale dei Verdi, 49 anni, uno dei nuovi protagonisti della politica tedesca. Il filosofo ecologista ha deciso di chiudere i due profili, forti di 50 mila followers ciascuno. Una scelta dovuta allo stress, ma anche allo scandalo dei dati carpiti in Rete e diffusi on line da parte di un giovane hacker, di cui è rimasto vittima, al punto da vedersi le proprie conversazioni familiari pubblicate su Facebook e su altri siti Internet. Se aggiungiamo i commenti velenosi che arrivavano sulla sua bacheca ogni volta che pubblicava un post, ecco che si arriva alla tracimazione. La misura era colma. Il politico tedesco non ha retto e ha chiuso tutto. «Nessun media digitale è così aggressivo come Twitter, in nessuno c’è tanto odio, cattiveria e diffamazione».

Non solo, ma i social network spesso e volentieri costringono a entrare nell’arena della scorrettezza e rispondere allo stesso tono e allo stesso livello. «Twitter mi fa scattare qualcosa: sono più aggressivo, polemico, stridulo ed estremo, il tutto con una velocità che non lascia spazio alla riflessione. Evidentemente non sono immunizzato contro questa deriva». Insomma, chiudere i rubinetti per essere migliori. Non è facile gestirli, i social network. Non tutti sanno muoversi a proprio agio nella piattaforma di 280 caratteri. Non tutti ce la fanno. Habeck non ce l’ha fatta. O forse non ha voluto farcela. La sua decisione ha suscitato un dibattito molto vasto in Germania, segno che la questione non è poi così peregrina. Può un politico rinunciare a Facebook e Twitter? I giornali si sono chiesti come può l’astro nascente della politica del centrosinistra tedesco governare un Paese come la Germania se non sa governare un tweet o un post su Facebook . Tanto più che i politici sovranisti - ovvero i suoi avversari, pensiamo a Trump - sanno padroneggiare a loro vantaggio benissimo i nuovi strumenti della comunicazione.

Bisognerà tenere d’occhio Habeck, per capire se ha avuto ragione, se riuscirà a superare la sua scelta e andare oltre (abbandonando quella dipendenza che tiene in pugno tutti i suoi fruitori) o se tornerà indietro dopo una «quaresima» sui social. Di certo il dibattito riguarda tutti noi e non solo i rapporti dei politici con questo tipo di comunicazione. I social networks sono estremamente democratici, forse troppo. Permettono a un ubriaco da bar di dire la sua al pari di un professore universitario che ha studiato ad Harvard su uno specifico argomento, confondendo le acque e rendendole torbide. Le «fake news», con i suoi siti che le confezionano come una macchina spara-palline da tennis, ormai spadroneggiano per il cyberspazio, orchestrati a dovere dai loro burattinai, fino a coinvolgere persino Papa Francesco (ieri c’era la bufala che il suo ricovero vaticano, da lui voluto nel quartiere di Borgo Pio, accoglieva solo immigrati). Non solo, ma chiunque può dedicarsi alla poco nobile arte dell’insulto celandosi dietro un nome o peggio un soprannome. I social sono pieni di leoni da tastiera, capaci di far perdere le staffe persino a politici consumati. Inutile affermare che si possono generare commenti e post con algoritmi e falsi profili, tali da orientare addirittura l’opinione pubblica. Insomma, una cloaca della comunicazione che avrebbe appassionato Goebbels. Per questo la nuova missione del giornalismo è arginare la propalazione di bufale che ormai viaggia a ritmi molto pericolosi per la democrazia.

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