Se i turisti in montagna
impareranno ad amarla

«Arda fò, se l’è mai pusìbel». Il vecchio montanaro, zuppo di sudore per la salita appena conclusa, se ne sta lì, appoggiato a un masso. Seduto no, perché il montanaro autentico non ama sedersi. Lui è arrivato al rifugio dal sentiero. Ma guarda dall’altra parte con uno sguardo che dice tutto di quel che sta pensando sul panorama, fatto di «gitanti una tantum», scarrozzati su per la montagna dalla seggiovia che d’inverno si carica di sciatori, e d’estate, quando ci sono, porta su quelli che la gamba non ce l’hanno, ma la pancia sì. Il panorama che vede il montanaro, per lui, è bruttissimo. Una fila quasi indiana, e decisamente vociante, di gente più o meno a disagio.

Zaino da scalata al K2, ma scarpetta troppo bassa. Oppure la sacca della palestra ma rampone himalayano. Cellulare e selfie stick prontissimi all’uso, perché la vetta conquistata va subito documentata agli amici dei social, fa niente se le gocce di sudore andrebbero aggiunte col fotoritocco e la dinamica della risalita verrà magari taciuta. Camminano in piano, ma con racchette che nemmeno Simone Moro sul Nanga Parbat. Al montanaro tutto questo non piace, quasi mai. Per lui la montagna non è salire a pranzo al rifugio, anzi. Per lui la montagna è salire quando gli altri dormono e scendere quando gli altri salgono. È farsi accompagnare dal fischio delle marmotte, è «sentire» la voce che la montagna affida a tutti i suoi rumori. Un ruscello che quasi sempre si sente scorrere e quasi mai si vede, un sasso che rotola, un picchio che attacca la sua giornata di lavoro. Ma quella montagna lì non è per tutti. Perché richiede la fatica di una levataccia e il disagio (o il gusto, a seconda) del freddo del primo mattino, il fiatone della salita, magari qualche dolore che spunta sul più bello, mettendo in dubbio il traguardo fissato. Ma per lui la montagna è la soddisfazione di avercela fatta, è anche il brivido di qualche rischio, di starci dentro rispettandola. «Porta solo la tua ombra, lascia solo la tua orma», dicono in Asia.

La montagna dei piccoli numeri, insomma. Come siamo stati abituati a vederla in questi anni, in qualche modo lamentando un turismo da sgoccioli, da gite di mezza giornata che incidono sul Pil del territorio praticamente niente. Ma quest’anno, no: il montanaro che arriva su, non trova il silenzio che era abituato ad ascoltare. Spesso, trova la comitiva che si spara la foto di gruppo. Perché il Covid ha imposto vacanze diverse, e per tanti Schilpario o Colere o Foppolo hanno sostituito Creta o Ibiza o Sharm el Sheikh. Bello, quindi: seconde case piene, hotel pieni, parcheggi pieni. Ristoranti che in genere arrivavi e sceglievi il tavolo, ora li devi prenotare. Pieno, ma pieno che così non l’avevi mai visto prima. Ci sarebbe da esultare. Non solo per i «forestieri» che scoprono le nostre montagne, ma anche per i bergamaschi che imparano ad apprezzarle con una calma superiore alle poche ore previste dal programma «arrivo-salita-pranzo-discesa-ritorno». Ne parla, mirabilmente, il professor Massimo Biza nel servizio che pubblichiamo alle pagine 28 e 29. Certo, per la gente che la montagna la «sopravvive» tutti i giorni è difficile sopportare questi cambiamenti, le troppe macchine, il tanto rumore in più. Però è vita in più. E forse da questo modo un po’ sguaiato di approcciarsi alla montagna, da questo esordio di molti, chissà che non possa crescere un modo «più giusto» di vivere la montagna. Si può anche cominciare con la seggiovia, in fondo, per capire quant’è bello starsene lassù. Altri torneranno per la via comoda, e pazienza. Magari anche in elicottero, che qui storpiamo il naso ma quando poi i turisti siamo noi ci piace tanto sorvolare le bellezze del pianeta. Altri, si spera, un giorno proveranno a mettersi sul sentiero alle 6, godendosi il fischio di una marmotta.

© RIPRODUZIONE RISERVATA