Se il bisogno di uccidere premia più del dialogo

MONDO. Nella Domenica delle Palme un filo robusto lega Ucraina e Striscia di Gaza. Ma gronda sangue e ne frantuma il simbolo.

L’ulivo e la palma bruciano a Sumy insieme a chi li sventolava, l’ulivo e la palma s’inceneriscono nella Striscia insieme a case, ospedali, bambini. La vittoria ha bisogno di stragi e non di coscienze che alzano le icone di una rigenerazione del destino al di là dell’odio. I missili russi e quelli israeliani hanno rigettato di nuovo nel buio della notte ogni timida speranza a cui in questi giorni, tenacemente e ostinatamente nonostante tutto una parte di umanità si era aggrappata. Nonostante tutto: cioè nonostante Trump, nonostante lo Zar assassino di Mosca, nonostante Hamas e l’oscena politica degli ostaggi, nonostante il genocida di Tel Aviv, che solca cieli europei sfidando un mandato di cattura internazionale e confidando in suoli accoglienti e spazi aerei gentilmente concessi, anche da chi ha contribuito ad ideare il Tribunale penale internazionale.

Trump e la promessa di stop alle guerre

Trump aveva stupito il mondo con le sue affermazioni sulle guerre che sarebbero finite 24 ore dopo aver varcato la soglia della Casa Bianca. Eppure ci eravamo aggrappati persino al bullo dai capelli biondi, perché il tempo che ci tocca vivere non ci piace. Non ci piace l’isteria collettiva e individuale sulla guerra come risposta inevitabile e come opportunità civile e finanziaria da cogliere senza indugio. Restiamo convinti che la guerra sia «inutile strage» e che con la guerra «tutto è perduto», frasi di Pontefici, magistero di pace cacciato a pedate nell’angolo della storia dai beniamini delle teologie politiche della vittoria.

C’è un giorno e una settimana che potrebbero segnare la memoria di una riflessione e invitare ad una pausa nel delirio collettivo senza appello. Ma ieri un grumo di sangue ha ricoperto come un doloroso sudario la Domenica delle Palme e la Settimana Santa. E quel sottilissimo e fragilissimo filo che cercava di tenere insieme pezzi di dialogo, prove esauste di diplomazia, tentativi di guardarsi negli occhi da persone umane, insomma quel disperato ultimo sforzo di dignità si è perso nelle fiamme di Sumy e di quello che restava dell’ospedale battista, dunque cristiano, «Ahli» di Gaza City. La maschera è stata gettata e i volti sono apparsi interi nella loro crudeltà, volti di assassini che hanno premuto il grilletto e volti di bugiardi spietati che hanno solo giocato con trattative fasulle per una pace che nessuno vuole.

A Gaza e in Ucraina si muore ancora

A Gaza la situazione è drammatica, catastrofica. Il card. Pierbattista Pizzaballa ha aggiunto «vergognosa». A Sumy le fiamme del giorno delle Palme hanno segnato lo straripare sulla scena della catechesi bellica dei «fratelli maggiori», odio criminale assoluto della autocrazia putiniana e ortodossa. Don Stefano Caprio, uno dei maggiori analisti di cose russe, aveva avvertito qualche settimana fa circa la messa a punto delle motivazioni belliche-spirituali, implementate dal nuovo «Benedizionale della guerra» della Chiesa ortodossa, che innalza lo Zar del Cremlino a capo della stirpe degli angeli, arci-stratega militare e spirituale.

La santità bellica ha deciso la strage di Sumy, sovranismo di sangue pan-ortodosso, passo aggiuntivo a tre anni di follia. Ma anche a Gaza il messaggio della insensata e lucida politica etno-religiosa militare del gabinetto di Netanyahu è stato altrettanto perfetto: bombe su un ospedale cristiano ultimo in funzione nella Striscia, proprio nel giorno delle Palme, previo grazioso avvertimento di evacuarlo. Si tratta degli ultimi distillati dell’essenza della guerra, quelli che travolgono ogni cosa e che rendono assai più difficile trovare una soluzione all’orrore quotidiano.

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