Scenari difficili
per l’autonomia

L’autonomia regionale, che ora si chiama differenziata, è un tema serio, con implicazioni complesse sia giuridiche che economico sociali che richiedono il massimo di competenza tecnica e sensibilità politica. L’esito può essere molto negativo o molto positivo, bisogna star attenti a buttar tutto nel tritacarne del quotidiano, perché queste sono riforme per un futuro che duri. Le Regioni non hanno meritato molta fiducia nel loro quasi mezzo secolo di vita, ma se questa fosse l’occasione per renderle più efficienti e responsabili, sarebbe un gran bene.

L’ultima volta che fu ritoccato il rapporto Stato-Regioni, per compiacere l’ansia ulivista di Bassanini di intercettare l’effimero vento federalista, finì molto male, con conflitti paralizzanti sul nuovo capo V della Costituzione. Potevano essere spazzati via dal referendum della stessa parte politica che li aveva provocati, ma si sa come è andata il 4 dicembre 2016. Se si scatena la guerra tra Nord e Sud, tra burocrazie ministeriali e regionali, tra secessionisti nostalgici e patrioti della retorica unitaria, tra virtuosi e spendaccioni, finisce male. Il giornale più importante sulla piazza di Roma, sta già evocando deportazioni di ministeriali al seguito di competenze trasferite.

Il conflitto sarà duro e metterà innanzitutto alla prova il rapporto di Governo. Con un paradosso nuovo, la competizione a raccogliere lo stesso consenso meridionale, e una novità per i politologi, un governo sovranista che propugna l’autonomia territoriale.

Per il momento, è almeno caduto un feticcio che aveva dominato la propaganda dei referendum del 2017, e cioè il famoso «residuo fiscale» (differenza tra quanto raccolto e quanto restituito nella regione). Maroni prometteva di tenere a Milano 27 miliardi, e Zaia ottenne ancor più consensi raccontando che avrebbe trattenuto i 9/10 delle tasse venete. Si parlava di centinaia di competenze da trasferire. Oggi la realtà è molto più modesta ma ambigua, e Galli della Loggia evoca la fine della sanità e della scuola nazionale.

Quello che si avvia è comunque un processo lungo, con un voto a maggioranza assoluta e successive verifiche parlamentari (non sottoponibili a emendamento, tema ancora controverso). Un processo che muove da un principio ferreo: si calcola qualsiasi modifica partendo dalla spesa storica. Per tranquillizzare il Sud, si vuole che le Regioni della neo-autonomia non tolgano un euro a tutte le altre (e il saldo Stato-Regioni deve essere a zero, pia illusione). Il Governatore campano non si fida, e minaccia sit in alla Corte Costituzionale. È vero che li si arriverà di sicuro.

Il processo per passare dalla spesa storica a quella standard è programmato su una durata di ben 5 anni, e dunque sarà opportuno non sventolare grandi vessilli già da qui alle elezioni di maggio. È troppo presto per festeggiare vittorie e, se si esagera, si rischia uno sterile dibattito sulla «secessione dei ricchi» (lombardi, veneti ed emiliani) ai danni della seconda Italia, quella del Sud, ma se il suo declino diventa irreversibile sarebbe un guaio anche per il Nord. È però lo Stato che lo deve salvare. La Lombardia lo può fare solo con la sua crescita.

Tutto questo contraddittorio dibattito (nessun automatismo certo, nessuno padrone a casa propria) dovrà inoltre fare i conti con tre condizionamenti esterni. Il primo è l’esistenza delle Regioni a statuto speciale (o si aboliscono, ma con l’Alto Adige non si può, o non avrebbe senso alzare tutti, salvo costi fuori controllo, tipo federalismo di Bossi). Il secondo è l’autonomismo comunale, che è vivo e forte (il Sindaco di Milano fa guerra a Regione Lombardia sul prezzo del metrò). Il terzo è il federalismo europeo, che suggerisce di armonizzare l’autonomia regionale dentro la riforma dell’Ue, che le imprese del Nord considerano essenziale.

L’assessore lombardo all’autonomia Galli ha parlato con un ossimoro: «L’autonomia è una scelta di portata eversiva caratterizzata da grande lealtà istituzionale». Concordiamo, se questo significa che la lealtà istituzionale è l’antidoto di un’eversione di cui non si sente davvero il bisogno. La fragilità italiana è già fin troppo evidente nel quadro internazionale.

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