L'Editoriale
Domenica 10 Febbraio 2019
Sanremo, classico con brio
Ma si poteva fare meglio
«So che potevo fare meglio» ha ammesso Claudio Bisio. Sempre un po’ contratto, a volte irritato, ci ha provato a portare un alito di Zelig in Riviera, ha trascinato fin lì Renato Pozzetto e persino Paolo Cevoli, alias l’assessore alle «varie ed eventuali» Palmiro Cangini, area Pd (inteso anche come piadina) ormai – per sua stessa ammissione – fuori tempo massimo con quella politica che puzza di fritto di strada, di italiano maltrattato e di persone invece trattate bene.
Perfetta invece - che dire di più? - Virginia Raffaele: avrà pure fatto un passo indietro come imitatrice (la sua Ayane-Pravo-Ferreri-Mannoia-Vanoni di ieri sera è stata uno dei masterpiece dell’edizione 69), ma si è calata nei panni di una presentatrice Rai come se facesse questo mestiere da cent’anni. Riuscendo a tenere insieme quello stile misurato e classico e una certa freschezza tutta sua, quasi ingenua a volte.
Baglioni, in «total white» è sempre Baglioni, anche se ha più o meno le stesse elasticità facciali di Ornella Vanoni. Chissà come si sarebbe divertito Oscar Wilde in questo mondo popolato di Dorian Gray ai quali solo la natura, impietosa, riserva a volte condanne inappellabili.
Non è stato il Festival dell’armonia, un Circus spumeggiante tenuto a bada dalle briglie dello zen, no. Forse piuttosto quello dell’autocontrollo. Qua e là quello delle interruzioni tecniche (ieri sera con Mahmood) e di tante piccole disarmonie pilotate. Per il resto, rimangono negli occhi e nelle orecchie le grandi ospitate, da Venditti a un Rovazzi lunare, capace di spingere a martellare il piede «in tangenziale» anche la madama che siede nelle prime file del Teatro Ariston, plaudente, dai tempi di Claudio Villa. Restano i Big Big, come Ligabue, portato sul palco in trono come un imperatore della musica italiana, o Eros Ramazzotti, che vende tanti milioni di dischi nel mondo da far invidia persino a Baglioni, che – commercialmente parlando – non è mai stato un Rino Gaetano. Resta Serena Rossi che canta, molto bene, Mia Martini, che dopo essere stata emarginata per anni precisamente da questo ambiente viene ora innalzata alla pubblica venerazione con tanto di lacrimuccia dei reprobi pentiti: più passano gli anni, più lei ci appare come una protagonista rara della nostra canzone, ma sono 24 anni che se n’è andata e come lei – voce, orecchio, testi scelti – non se ne sono viste più.
Enzo Mazza, presidente della Fimi, ci comunica, in conclusione, che Sanremo «incide per un 1/1,5% sul mercato discografico», che è come dire niente, dato che lo stesso mercato ormai è un parco residuale per aficionados, nell’era della musica che ti arriva via bluetooth e via cloud ovunque, e da ovunque. Il festival una volta serviva per trovare delle canzoni da canticchiare sotto la doccia, mica per riflessioni sulla poesia di Borges o l’immigrazione clandestina. Quello che è un po’ sparito da Sanremo – lo spiega il focus group di esperti bergamaschi che pubblichiamo a pagina 54 – è esattamente Sanremo, ovvero il canto all’italiana: nell’era del rap gli under-30 parlottano, declamano, «predicano» ma raramente inforcano una nota pulita, atletica, sonora.
Ecco perché nei clic della gente tornano il belcanto del Volo, torna quella voglia di rock (un po’ copia-e-incolla) della Bertè, o esplode il voto a valanga per chi, anche cavalcando i ritmi alla moda, cerca ancora una certa melodia.
Baglioni in ogni caso ce l’ha fatta, quest’anno ha governato più dietro le quinte, e seraficamente ha dirottato il Festival verso la musica che ci gira (già) intorno: ha raccattato i suffragi anche dei non ammessi al voto, quelli dai 12 ai 18 (un pubblico che ha sempre saputo capire molto più di altri), ha svecchiato Sanremo e lo ha riconsegnato a una prudente attualità. Un po’ prevedibile.
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