Sanità e scuola infiammano
il conflitto tra Stato e Regioni

Invocare la collaborazione istituzionale nella seconda emergenza Covid è una cosa che fanno tutti, ministri e governatori: metterla in pratica è un altro paio di maniche. Sono ore difficili a Palazzo Chigi e nelle sedi delle Regioni: il numero dei contagi ha superato quota 10 mila su 150 mila tamponi, dunque una proporzione ancora bassa rispetto al picco della scorsa primavera, e tuttavia il numero fa impressione, cresce esponenzialmente ogni giorno e mette in tensione i responsabili delle istituzioni. Che infatti hanno cominciato a litigare. Anche se poi hanno lo stesso obiettivo: prendere misure restrittive oggi per evitare un lockdown generalizzato domani, nella consapevolezza che fermare di nuovo il Paese darebbe un colpo micidiale all’economia proprio mentre si stava verificando il rimbalzo del Pil da tutti aspettato per poter guardare al 2021 con minore pessimismo. Ma se l’obiettivo è comune, la strada per raggiungerlo ognuno la vede dove gli pare.

Ha cominciato il governatore della Campania De Luca a stringere le viti coinvolgendo anche le scuole, cosa che ha mandato su tutte le furie la ministra dell’Istruzione Azzolina, fermamente contraria a rimandare a casa gli studenti («La scuola per il momento è il posto più sicuro, con un indice di contagio minore rispetto ad altri luoghi di incontro»). Sembrava anzi che il governo avesse intenzione di ricorrere contro l’ordinanza di De Luca, ma quando sono arrivati gli ultimi numeri dei contagi c’è stata una silenziosa marcia indietro. Anche perché misure molto simili, con tanto di coprifuoco alle 22, sono pronte a scattare anche in Lombardia, l’altra regione che sembra tornata nell’occhio del ciclone. E per questa ragione il ministro degli Affari regionali Boccia ha passato la giornata ad invocare appunto la «collaborazione istituzionale» con i governatori: la paura è che si ripeta quello che abbiamo già visto in primavera, e cioè che ognuno vada per conto suo e che si produca una gigantesca confusione tra i cittadini disorientati.

Ma Boccia a sua volta deve mediare tra quanti, nel governo, sono per una linea «dura» di restrizioni robuste – Dario Franceschini capodelegazione del Pd e soprattutto Roberto Speranza, ministro della Salute – e quanti temono per esempio un ritorno massiccio alla didattica a distanza nelle scuole e un definitivo crollo del commercio (col turismo che ormai è al lumicino).

Come se non bastasse, a governo e Regioni non tornano i conti sulle attrezzature inviate da Roma per incrementare i posti letto nelle terapie intensive e sub intensive. Il commissario Arcuri e Boccia hanno chiesto conto e ragione del perché l’incremento sia inferiore a quello programmato grazie all’invio per esempio dei ventilatori. «Dove sono andati a finire?» è stata la domanda che è risuonata più volte nel corso di una non facile riunione della conferenza Stato-Regioni, rinviata a ieri mattina dopo l’improvviso lutto della governatrice calabrese Jole Santelli. L’accusa del governo non è neanche tanto velata: secondo Boccia e Arcuri i governatori questa estate avrebbero sprecato il tempo quando tutto sembrava essersi fermato.

Finora il governo per rafforzare la sanità pubblica ha speso quasi due miliardi (a debito) e sa che dovrà tirarne fuori altri. Che però non ci sono: i ritardi nell’erogazione del Recovery Fund sono questione di cui si è discusso ieri al Consiglio europeo con il consueto tira-e-molla tra i cosiddetti Paesi «frugali» (che mettono i bastoni tra le ruote) e tutti gli altri tra cui l’Italia (che provano a smuovere il carro europeo). Se i miliardi promessi non arrivassero in tempo – c’è chi parla di fine 2021 - diventerebbe obbligatorio andare a battere cassa al Fondo Salva Stati attivando il prestito di 37 miliardi (a zero interessi e pronta cassa) da spendere per la sanità. Ma il ricorso al Mes, invocato da alcuni e respinto da altri, rischia di essere un tema altamente divisivo nella maggioranza (e anche nell’opposizione).

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