L'Editoriale
Domenica 24 Ottobre 2021
Salvare vite non è reato. Se l’ovvio non è ovvio
I pm di Agrigento mercoledì scorso hanno chiesto l’archiviazione per il capitano e l’armatore della nave Mare Jonio, appartenente all’associazione «Mediterranea», che il 9 maggio 2019 in acque libiche soccorse 30 migranti, tra i quali due donne incinte, una bambina di due anni e diversi minori non accompagnati. L’accusa era favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina e violazioni del codice della navigazione. Nel motivare la richiesta i pm rilevano che «l’intervento umanitario, in mancanza di prove di contatti con i trafficanti, non è mai sanzionabile». Viene inoltre ricordato come «non vi sia una normativa italiana o internazionale che autorizzi lo sbarco dei migranti a Tripoli».
Il giorno dopo il gip, ancora di Agrigento, ha archiviato l’indagine sul capitano di un’imbarcazione dell’organizzazione non governativa (ong) «Sea Watch»: il 19 maggio 2019 sbarcò a Lampedusa 47 immigrati salvati nel Mediterraneo quattro giorni prima. In questo caso il reato contestato era il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Salgono così a 19 su 20 le inchieste concluse con l’assoluzione, il proscioglimento o l’archiviazione che hanno chiamato in causa navi umanitarie. È incredibile l’accanimento giudiziario, di una parte della politica e del senso comune contro questa attività: il salvataggio di vite da parte delle ong ha un costo che non ricade sui bilanci pubblici e copre il vuoto lasciato dagli Stati. L’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio arrivò a definire con cinismo le navi delle ong «taxi del mare». Solo dal 2013 ad oggi sono morti o dispersi nel Mediterraneo centrale 17.800 immigrati: ma su questa immane tragedia cala un velo.
Cinque notti fa un trafficante che governava una barca, ha lasciato da solo sugli scogli impervi di un’isola verso l’Italia un giovane tunisino paraplegico: troppo ingombrante la sua presenza. È stato ritrovato la mattina dopo da un elicottero del Soccorso alpino: un uomo dell’equipaggio si è calato con una fune e lo ha recuperato. È stato portato all’ospedale di Trapani. A un braccio aveva la flebo. Sono poi molti i migranti che sbarcano in Italia feriti da torture. Un recente rapporto dell’Onu accusa la Libia per non aver chiuso i lager dove chi scappa da guerre, persecuzioni o miseria viene detenuto, torturato o ucciso e le donne violentate «dai trafficanti. Violazioni su vasta scala commesse da attori statali e non statali, con un alto livello di organizzazione, il che suggerisce crimini contro l’umanità». In quei lager ci sono anche bambini. Ma il rapporto denuncia pure «abusi in mare». L’accordo con il quale l’Italia ha versato 750 milioni di euro in tre anni al governo libico prevedeva invece la chiusura di quei campi di concentramento. Se in questi anni le campagne politiche di criminalizzazione dei migranti, delle navi delle ong e di chi accoglie, pericolose perché generalizzanti, fossero state dirette verso i trafficanti d’uomini, le Guardie costiere infiltrate da mafie e dagli stessi trafficanti, polizie, governi e dittature corrotte dell’Africa e del Medio Oriente che usano i migranti come merce dalla quale trarre denaro, se avessimo aperto canali umanitari per chi ha diritto d’asilo, ma anche per chi potrebbe ricoprire mestieri che restano vacanti (secondo un dossier del «Sole 24 Ore» su segnalazione delle imprese, in Italia sono introvabili 61.730 lavoratori non qualificati e 41.700 addetti alla ristorazione), forse la situazione dell’immigrazione sarebbe diversa. Continuiamo poi a foraggiare gli Stati di partenza degli irregolari, con scarsi risultati. Dovremmo andare invece all’origine del fenomeno.
Per non parlare delle armi che vendiamo in violazione di una nostra legge a Paesi che non rispettano i diritti umani, come l’Egitto (che sul caso Regeni si fa beffe di noi). I migranti sono taglieggiati, oggetto di minacce e violenze per tutto il lunghissimo percorso, che può durare anni, dagli Stati d’origine alle coste libiche. Ma per il senso comune i criminali sono loro, non gli sfruttatori che arrivano a lasciare un paraplegico da solo su un’isola in mezzo al mare.
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