L'Editoriale / Bergamo Città
Lunedì 16 Dicembre 2019
Salvare banche
a quale prezzo?
Le banche non devono fallire mai. È dai tempi del crack dell’Ambrosiano di Calvi che lo si dice. Ne va del tessuto economico irrorato dal sistema finanziario degli istituti di credito: mutui, fidi e prestiti agli imprenditori e alle famiglie, anticipi di pagamento degli stipendi e delle pensioni, ristrutturazioni, gestione dei capitali e dei risparmi e via dicendo. Se crolla l’istituto di credito crolla tutto, si interrompe la circolazione del sangue dell’organismo e la regione economica di riferimento si impoverisce. A maggior ragione se parliamo di una popolare o di una cassa di risparmio, tradizionalmente legata al territorio e ai suoi bisogni concreti.
Malauguratamente le banche in Italia falliscono spesso. Solo per citare gli esempi più recenti potremmo andare al 2015 e alle famose quattro banche che annoveravano nel gruppo Etruria, allo scandalo Monte Paschi, alle due Popolari venete, ai problemi delle casse di Cesena, Rimini e San Miniato e alla Carige a inizio 2019. Ogni dissesto va preso a sé e non si può fare di tutta un’erba un fascio. Ma in molti casi l’istituto di credito anziché essere funzionale al territorio, come dovrebbe essere, diventava un crocevia di poteri locali e nazionali, prebende ed elargizioni politiche, bilanci malati, acquisizioni avventate per sindrome da «grandeur» di finanza napoleonica, azioni in cambio di crediti, scarsa trasparenza, gestione opaca, manipolazioni del mercato se non veri e propri raggiri e truffe. E infatti tutto finisce nel mirino della magistratura che indaga per varie ipotesi di reato, tra cui truffa, ostacolo all’attività della Banca d’Italia e raggiro nel prospetto informativo consegnato alla Consob.
Anche nel caso della Banca Popolare di Bari, una delle ultime grandi banche del Sud (in gran parte fallite e questo è un sintomo chiaro delle condizioni in cui versa tutto il Mezzogiorno economico e finanziario) ci si muove in un contesto del genere. Dopo il commissariamento deciso da Bankitalia con la nomina dei commissari, oltre ai rischi per i correntisti e il personale, ci troviamo di fronte al deterioramento del capitale per un miliardo e mezzo di euro, in mano a 70 mila soci. Di questi pare che almeno un terzo, a detta delle associazioni di difesa dei consumatori, siamo vittime di vendite fraudolente o simil-fraudolente. Avete presente quando arrivate allo sportello con i vostri risparmi e il commesso dietro il vetro vi invita a investirli nelle azioni «da cassettista» dell’istituto? O quando vi telefona dalla banca invitandovi a un colloquio per dirvi che il denaro liquido nel vostro conto oggi come oggi non vale più nulla ed è meglio investirlo in azioni dell’istituto? È capitato – nei casi citati (le mele marce) e non certo per tutto il sistema bancario italiano che è sano - che quel commesso non sia stato all’altezza dei suoi doveri informativi. Non ha ad esempio spiegato che a dividendi alti corrisponde un rischio sul capitale proporzionalmente alto. Oppure ha fornito un prospetto informativo lacunoso. Quanti «soci» della popolare di Bari, ovvero clienti allo sportello, sapevano di tutto questo? Hanno comprato azioni della banca a 9,53 euro e oggi si vedono i titoli fermi a 2,38, prima che vengano azzerate del tutto. La magistratura sta indagando.
Le banche non devono fallire mai. E infatti alla fine non falliscono. Vengono messe in amministrazione controllata, ricapitalizzate e rimesse sul binario del credito. Si calcola che si siano persi nelle ultime crisi almeno 30 miliardi di euro, il valore di una manovra economica media. La logica dei risanamenti privati regolati dall’Unione europea funziona poco in Italia. A pagare sono quasi sempre i consorzi bancari o più frequentemente lo Stato (per i due terzi dei casi). Alla fine chi ci rimette è sempre il «parco buoi»: il piccolo azionista o il contribuente.
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