Salva Stati, il rinvio per evitare
la battaglia e sperare in settembre

Per quanto il presidente del Consiglio cerchi di districarsi tra i veti reciproci di Pd e M5S sul Mes, i suoi margini di movimento si vanno via via restringendo. Il segretario democratico Nicola Zingaretti è tornato a chiedere che sul Fondo salva-Stati la si smetta di tergiversare e si prenda atto che quei soldi, 36-37 miliardi a tasso zero, all’Italia servono, e con urgenza, per risollevare il settore della sanità che con la pandemia ha mostrato le sue eccellenze ma anche i limiti dovuti ad un ventennio di tagli di bilancio. Zingaretti, nella lettera che ha scritto al «Corriere», non ha nascosto la propria impazienza per il temporeggiamento di Palazzo Chigi.

Ma l’effetto è stato di far scattare la reazione dei 5 Stelle: «Noi non cambiamo idea - ha detto un grillino pur moderato come il ministro Patuanelli - il Mes non lo votiamo perché non serve». Ma il problema del voto sul Mes non riguarda tanto i vertici del Movimento, quanto la sua base: che Di Maio abbia capito che ad utilizzare il Fondo prima o poi arriveremo, è cosa risaputa.

Ma Di Maio non è più leader del M5S e deve difendersi dall’offensiva lanciata dal suo fratello-coltello Alessandro Di Battista armato di tutti gli slogan del proto-grillismo: quel che resta della base e parte dei gruppi parlamentari vedono nel «ritorno alle origini» di Di Battista l’unica possibilità di mantenere in vita un movimento dilaniato dalle lotte tra cordate e correnti, corroso dalla gestione del potere e dai problemi del governo nazionale o locale, posizionato dai sondaggi al livello di quarto partito (da primo che era nel 2018) dopo i Fratelli d’Italia. Per bloccare la caduta verticale dei voti e la sicura sconfitta alle prossime elezioni - con conseguente trombatura di quasi tutti i deputati e senatori uscenti – il «No al Mes» è diventato una specie di bandiera di Fort Apache: sventolarla significa dimostrare di essere ancora in vita.

Di fronte a queste motivazioni, il ragionamento di Zingaretti sulla necessità di uno strumento che fornisce fondi a tasso zero, ha una validità pari a zero. E questo Conte lo sa benissimo. Tantopiù che al Senato si va assottigliando il vantaggio numerico della maggioranza sull’opposizione: le continue fuoriuscite di senatori grillini mette a rischio il governo su qualunque votazione anche minimamente controversa, figuriamoci sul Mes. È per questa ragione che nella risoluzione che il Parlamento dovrà votare prima del vertice europeo del 17 luglio la parola Mes neanche comparirà. Conte vuole rinviare qualunque decisione a settembre quando sarà più chiaro se e come avremo i miliardi del Recovery Fund: se fosse piegata la resistenza dei Paesi del Nord che vogliono centellinare gli aiuti e arrivassero all’inizio del 2021 i famosi 170 miliardi di prestiti e sussidi, la grana del Mes - spera Conte - potrebbe essere superata.

Peccato che qualche giorno fa Angel Merkel, in procinto di diventare presidente di turno della Ue, ha fatto capire che potremo avere i fondi del Recovery Plan solo se accetteremo anche i prestiti del Mes: «Ve li mettiamo a disposizione perché li utilizziate» ha scritto la Kanzelrin. E si capisce perché Conte abbia risposto piccato («Decidiamo noi»): perché le parole della Merkel dimostrano che l’Europa vuole garanzie, non parole, sulla nostra capacità di spendere i fondi per risanare i problemi strutturali del nostro sistema, e non per sprecarli distribuendo sussidi a pioggia. Che è però quanto è stato fatto finora con i primi 75 miliardi di maggior debito e quanto si farà con i prossimi 20: cassa integrazione fino alla fine dell’anno, sussidi e bonus, incentivi, redditi di sopravvivenza, ecc. Per gli investimenti ora c’è poco o niente: Conte però non presenterà a Bruxelles il piano delle riforme prima di settembre. Nel frattempo dovrà passare l’estate cercando di riempire le tante promesse di una qualche sostanza e calmare il crescente malumore dell’alleato piddino.

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