L'Editoriale
Venerdì 22 Marzo 2024
Salari bassi, l’Italia paga una debole produttività
ECONOMIA. Nel 2022 il salario medio in Italia è di circa 31mila e 500 euro lordi annui. Sono 14mila euro in meno di quello tedesco. Anche ai francesi va meglio, 10mila euro circa in più. Sono ben 5,7 milioni coloro che percepiscono in media 11mila euro lordi.
Il part time involontario incide per il 57,9%, la quota maggiore nell’Eurozona, poi segue il lavoro a termine. È la forte discontinuità del lavoro il tratto distintivo, in breve la precarietà. La cosa colpisce perché l’Italia per il terzo anno di seguito è cresciuta più dei suoi concorrenti e in assoluto più della media Ue. E quindi si potrebbe ipotizzare che anche le retribuzioni abbiano seguito la tendenza. È un fatto che l’export ha tenuto nonostante il commercio mondiale sia calato del 5%. Le esportazioni italiane hanno trovato nuovi sbocchi mentre quelle tedesche sono calate drasticamente. E si sa che Germania e Italia sono due Paesi interconnessi per la fornitura delle piccole e medie aziende del Nord Italia al sistema industriale tedesco.
Per le aziende più strutturate sicuramente l’innovazione di «Industria 4.0» e la digitalizzazione hanno giocato un ruolo di rilancio ma è altrettanto vero che per molte imprese il lavoro a basso costo è un fattore determinante per restare sul mercato. E stiamo parlando di un tessuto industriale polverizzato fatto di mini aziende dove solo la creatività, l’invenzione, l’estrema elasticità produttiva permettono di sopravvivere. Il tutto in un contesto, dal 1990 ad oggi, dove secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) il valore medio delle retribuzioni è cresciuto in tutti 37 i Paesi membri tranne che nel 38°: in Italia appunto. Per un calo del 2,9% in confronto ai livelli di partenza del 1990. È vero che il potere d’acquisto è stato eroso dappertutto. Dai dati del Fondo monetario internazionale si scopre che la quota del Prodotto interno lordo riferita alle retribuzioni in generale dal 1980 al 2017 è calata in 26 Paesi industriali dal 66% circa al 61%. Così la globalizzazione ha colpito a partire dal 2001, cioè con l’ingresso della Cina nel Wto (Organizzazione mondiale del commercio). Con grave responsabilità di chi in nome del libero mercato non ha posto le necessarie condizioni per una concorrenza sostenibile. Questo è costato milioni di posti di lavoro, la delocalizzazione selvaggia e quindi la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori. Posti alle strette tra la perdita del posto di lavoro e una minore retribuzione, ci si è adattati alla nuova situazione. Bassi stipendi e saltuarietà hanno permesso alle aziende di sopravvivere e ai lavoratori di sperare. Tutti in Europa hanno sofferto. I metalmeccanici tedeschi hanno perso un quarto del valore del loro stipendio negli ultimi sei anni. Adesso la Germania vive ondate di scioperi come mai si era visto nella storia recente del Paese. Dalle ferrovie, al personale di volo Lufthansa, tutti reclamano aumenti per recuperare parte del potere d´acquisto perduto. I datori di lavoro sono restii perché nella transizione energetica sono molti i costi da sostenere e tuttavia un accordo si troverà perché la produttività complessiva del sistema Paese lo consente.
La produttività del lavoro in Germania è infatti cresciuta dal 1995 al 2022 dell’1,1% a fronte, dati Istat, dello 0,5% dell’Italia. La produttività è però multifattore, comprende non solo gli investimenti in tecnologie. Determinanti sono l’efficienza del sistema formativo, dell’apparato burocratico, della qualità delle istituzioni pubbliche, del sistema giudiziario. Perché questo accada occorre che la vocazione industriale diventi egemone in Italia. Ovvero che coinvolga anche quella parte territoriale e culturale che finora ha contato sull’assistenzialismo e ha frenato lo sviluppo.
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