Ritroviamo uno sguardo
umano e universale

Trovo che come cristiani abbiamo bisogno di parlare con il ddl Zan più che di parlare a proposito del ddl Zan. Di continuare un’interlocuzione seria più che un chiacchiericcio da bar. Sui social la realtà è più semplice; giocano sempre e solo due squadre: c’è chi la pensa come te e poi – linea di frontiera – chi la pensa diversamente. Stop. Ed è un passo psicologicamente troppo suadente quello che porta a riconoscere in queste due fazioni i buoni e i cattivi. Gli amici e i nemici, come quando da bambini si aveva bisogno di essere un po’ radicali, di non concedere grande spazio alle sfumature, per familiarizzare con una realtà che già sembrava troppa da digerire tutta insieme. Per questo sui social o parliamo con amici o ci difendiamo da nemici; non si dà una terza scelta: è il prezzo per avere a che fare solo con questioni semplici e con soluzioni rapide ed efficienti.

Ma ci sono questioni che meritano di essere trattate con un rispetto differente; domande e capitali simbolici che non possono essere semplificati, altrimenti si asciugano e si impoveriscono. Ciò che il ddl Zan sta portando all’attenzione di tutti è che abbiamo bisogno di un pensiero lento – non rallentato, che è un’altra cosa – perché oggi facciamo tutti più fatica a capire quale sia la posta in gioco nell’avventura umana: il vero, il bello e il bene dell’esperienza dell’essere al mondo, come il senso da trasmettere alla generazione che verrà, non sono evidenze scontate. Di questo abbiamo bisogno di tornare a parlare, non esportando nel dibattito pubblico l’isteria dei social, ma recuperando il gusto per l’umano integrale e per il confronto. Per non confondere i piani e non essere generalisti lì dove c’è bisogno di una grande finezza, anche spirituale. La fatica del trovare le parole giuste per il dialogo di tutti non autorizza per nessuno la scelta affrettata di parole vaghe o acerbe. Al di là delle polemiche più o meno strumentali, da entrambe le parti, e delle ferite emotive più o meno personali, forse è questa la prima cosa a cui possiamo tenere, soprattutto in quanto cattolici (che in greco significa «universale»): la passione per un’umanità in cui c’è in gioco qualcosa di totale, qualcosa che è di più del criterio del sé.

La seconda cosa importante è la questione della diversità, a cui si collega il valore del rispetto e la definizione di cosa è discriminazione e cosa no. Come società facciamo fatica a pensare la diversità, perché è un’esigenza che sembra subito intaccare la questione dell’uguaglianza: se essere diversi vuol dire avere il diritto a non essere tutti uguali, in quali modi possiamo essere uguali nella dignità pur essendo ciascuno diverso? Mi chiedo se frammentare il diritto al rispetto sia il modo migliore per custodirne il valore: la parcellizzazione dei diritti non dice in fondo come si stia disgregando il diritto di tutti? Certo che il rispetto è fondamentale e sacro. Ma non perché uno ha un certo colore della pelle, o una certa «identità di genere», o... Ma perché è un essere umano. Perché apparteniamo alla medesima comunità di destino, senza introdurre gerarchie e categorizzazioni di dignità.

La bimillenaria sapienza evangelica scomoderebbe l’ideale della fraternità. Tutti figli del Padre. Non abbiamo forse bisogno di provare a recuperare uno sguardo sull’umano e sull’universale? Su ciò che ci accomuna e che viene da più lontano di noi? Certo è che bisogna esplorare anche la categoria di rispetto: si tratta di quell’atteggiamento che non è semplicemente tolleranza, ma è consapevolezza della sacralità della persona umana? O si tratta di introdurre, attraverso questa categoria più neutra e condivisibile, un’idea che gode di minor consenso, quella secondo cui l’identità sessuale e di genere sia un fatto privato, irrilevante sul piano pubblico e sociale? E come vale il rispetto nella direzione opposta, vale a dire anche di un’idea diversa, come quella cristiana, che prevede un insegnamento e delle prassi che pongono una differenza rispetto all’antropologia del ddl Zan?

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