Ritirata strategica
di fronte all’Europa

A Bruxelles il comitato tecnico dei direttori del Tesoro dei Paesi dell’Eurozona ha approvato la linea della Commissione sulla manovra italiana: bocciatura. Dunque via alla procedura di infrazione. Era un passaggio obbligato, di fatto siamo dentro il tunnel che ci dovrebbe portare già a gennaio a sborsare più di venti miliardi aggiuntivi di «sanzioni». Devastante. Eppure la trattativa con l’Europa sulla manovra andrà avanti, almeno fino al 19 dicembre. A quel che sembra la trincea del «i numeri non si toccano» è già caduta.

«Il deficit al 2,4? Non sta scritto nella Bibbia» diceva sorprendentemente Matteo Salvini ieri sera a «Porta a Porta», e più o meno con lo stesso giro di parole Giuseppe Conte eludeva la questione in una pausa del G20 di Buenos Aires dove il Presidente del Consiglio e il ministro del Tesoro stanno trattando con Moscovici, i francesi e i tedeschi una onorevole ritirata. Se anche alla Camera la manovra dovesse essere approvata (addirittura col voto di fiducia) così come è, al Senato verrà cambiata all’ultimo momento: il deficit calerà, le risorse verranno almeno in parte spostate dalla spesa assistenziale a quella per investimenti, i titoli delle riforme naturalmente rimarranno così da poter essere mostrate all’elettorato prima delle elezioni di maggio ma il contenuto e la tempistica verranno fatalmente annacquati.

Meglio così che affrontare un ciclo iper-recessivo (quale sarebbe imposto dalle manovre correttive della procedura di infrazione) proprio alla vigilia del voto di maggio su cui sia Salvini che Di Maio appuntano la speranza di fare il pieno di voti e condurre in Europa quella rivoluzione sovranista e populista nella quale confidano tanto (anche se adesso hanno avuto la prova che i loro alleati, proprio in quanto sovranisti, si fanno largamente gli affari loro, e peggio per l’Italia se sgarra).

Questa line è tutt’altro che indolore all’interno del governo ma la minaccia europea è troppo forte e troppo pericolosa: forse è stata a lungo sottovalutata ma è ora sotto gli occhi di tutti che solo grazie alla prospettiva di una retromarcia italiana si sta risollevando la Borsa e abbassando lo spread.

Resta il fatto che M5S e Lega hanno molte gatte da pelare in questi giorni. L’insofferenza grillina è stata palese sul provvedimento «sicurezza» che Salvini considera la sua bandiera di battaglia (insieme alla riforma della legittima difesa) ma che non piace ad una parte consistente dei deputati pentastellati che non hanno mancato di segnare il loro dissenso sempre guardando alle mosse del loro capo ideale, Roberto Fico. Il quale potrebbe riprendere spazio ora che Di Maio è sotto attacco per le vicende paterne che lo indeboliscono sia sul fronte esterno che su quello interno, non meno insidioso. Sta di fatto che le tensioni si stanno scaricando sul Global Compact of Migration, l’accordo Onu sulla politica migratoria che l’Italia, con il premier Conte in prima persona e il ministro degli Esteri si era impegnata a sottoscrivere. E invece Salvini ha detto «no», spiegando a brutto muso che di firme italiane sotto quel documento non se ne mettono e che il governo non parteciperà nemmeno alla Conferenza internazionale di Marrakech convocata per discuterne. Lo stop ha mandato su tutte le furie la Farnesina e soprattutto i grillini «di sinistra» che ora minacciano battaglia, cioè far passare l’adesione italiana con l’aiuto del Pd. I dem naturalmente attaccano la schizofrenia di un governo troppo diviso tra le sue due anime e tartassato dagli annunci contraddittori. I cinque o sei milioni di tessere per il reddito di cittadinanza che Di Maio giurava di aver già «ordinato» non ci sono: lo ha confermato il sottosegretario leghista Durigon, se non altro perché ancora nessuno sa come sarà davvero il reddito di cittadinanza.

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