Le corporation di Internet e dell’informatica hanno ormai la meglio anche sugli Stati più evoluti. La notizia è nel suo genere clamorosa: persino la Russia, conosciuta per la sua impressionante capacità tecnologica e spionistica, è stata costretta ad alzare bandiera bianca contro un gigante del web. Dopo due anni di infruttuosi tentativi tecnici Mosca ha rinunciato a bloccare sul proprio territorio nazionale il servizio di messaggeria Telegram, che aveva rifiutato di consegnare le chiavi di cifratura dei propri servizi.
L’Autorità competente federale ci ha provato in tutti i modi a far osservare una sentenza dell’aprile 2018, ufficialmente pronunciata in funzione «anti-terrorismo ed estremismo». I dati servivano per essere girati all’Fsb, l’ex Kgb dei tempi sovietici.
Alla fine RosKomNadzor si è arresa ed ha ceduto all’evidenza dei nuovi tempi che avanzano. A nulla è servito bloccare milioni di indirizzi IP, provocando caos e disservizi in serie ad altre compagnie ed alla rete in Russia in generale. La cosa incredibile della vicenda è che dal 2018 pure numerosi funzionari di Stato o politici federali hanno continuato tranquillamente ad usare il servizio di messaggeria finito al bando, come se nulla fosse.
Fondato dal russo emigrato Pavel Durov - che tra l’altro ha studiato da bambino in Italia ed è figlio di un latinista di fama di San Pietroburgo - Telegram asserisce di non avere accesso alle chiavi criptate degli utenti. Quindi massimo rispetto della privacy. Ma si può dire la stessa cosa per le piattaforme multimediali per le comunicazioni a distanza usate da milioni di persone durante il lockdown? Il dubbio che il Covid-19 abbia provocato indirettamente una razzia globale di dati (ormai facilmente analizzabili grazie alle ultime tecniche) è più che legittimo alla luce della scelta in alcuni Paesi più avanzati di sviluppare ora d’urgenza proprie piattaforme nazionali.
E non si pensa solo ad un uso criminale. Nel XXI secolo bastano pochi clic ben assestati per sapere chi sono i migliori «cervelli» in erba nelle scuole superiori o nelle università di un dato Paese. Queste sono informazioni sensibili che possono fare gola a non pochi. E se a qualcuno venisse in mente l’idea di portarsi via i migliori giovani scienziati europei in un dato campo? In Italia, ad esempio, questi dati sono al sicuro? Essi sono immagazzinati su server nazionali? Oppure si è preferito «risparmiare»... «tanto quella tale società fa il servizio gratis» e a nessuno è suonato l’allarme del «perché lo si offre gratis»?
Nel libro sulle superpotenze delle intelligenze artificiali – la nuova frontiera del domani – il manager Kai-fu Lee fa un confronto tra la Cina e la Silicon Valley, sforzandosi di intravvedere il nuovo ordine mondiale. Uno degli elementi evidenziati è la necessità della nuova industria di elaborare dati, ed in quantità sempre maggiori – «oceani di dati», per sviluppare nuovi servizi.
Grazie al loro numero (un miliardo e mezzo) – ecco una ragione – i cinesi potrebbero avere la meglio sugli americani in questa contemporanea corsa tecnologica. Non sorprende quindi che Nuova Delhi, adesso ai ferri corti con Pechino sull’Himalaya, abbia chiuso d’urgenza l’accesso alla rete internet nazionale a 59 app cinesi, ufficialmente con il difetto di «fotografare» periodicamente il contenuto della memoria degli smartphone per inviarlo in Cina.
L’India riuscirà in questa impresa, a differenza della Russia con Telegram? Solo gli specialisti più bravi potrebbero conoscere la risposta.
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