Riforme, è tempo di proposte alternative

ITALIA. Le elezioni inglesi del secondo dopoguerra videro la sconfitta del partito di Winston Churchill, il quale era stato uno degli artefici della vittoria contro il nazifascismo.

In una agitata riunione del vertice del partito Conservatore un deputato dichiarò che sarebbe stato necessario utilizzare il «filibustering» contro la proposta del partito Laburista di nazionalizzare l’energia elettrica. Con il suo consueto atteggiamento, Churchill lo zittì imperiosamente affermando: «Lei non ha capito nulla della democrazia, i Laburisti hanno vinto le elezioni e hanno pieno diritto ad attuare il loro programma». L’ostruzionismo parlamentare ha ragion d’essere soltanto nel caso che la parte politica vincente voglia modificare da sola l’ordinamento costituzionale. Quella del vecchio statista fu una vera lezione di correttezza democratica.

Tale episodio dovrebbe farsi largo nel dibattito politico del nostro Paese. Per coglierne la connessione occorre partire da una premessa. Il governo Meloni, piuttosto che dare risposta ai gravi problemi economici e sociali nel quale versa l’Italia, sta operando su tre fronti, ognuno dei quali è particolarmente caro ai tre partiti di maggioranza: elezione diretta del presidente del Consiglio (FdI), riforma della giustizia (FI), autonomia differenziata (Lega). Le prime due proposte - implicando modifiche della Costituzione - necessitano di un processo di approvazione «rafforzato» da parte della Camere. Per diventare leggi dello Stato. I progetti devono essere approvati (due volte, a distanza di almeno tre mesi dalla prima approvazione) con il voto di due terzi dei parlamentari. La premier sa bene che, dati i numeri dei voti di maggioranza, tale risultato è praticamente impossibile. Di conseguenza getta il guanto della sfida. Ad essere più precisi, lancia il sasso e nasconde la mano: prima afferma con piglio fiero «o la va o la spacca»; il giorno seguente ammorbidisce i toni, precisando che - anche in caso di sconfitta al referendum - non ha alcuna intenzione di dimettersi. Siamo di fronte a una specie di sceneggiata. Il tema dell’elezione diretta del presidente del Consiglio viene sbandierato a ogni apparizione della premier e a ogni sussurro dei suoi alleati. Ma, a pensarci per un solo attimo, tale processo implica almeno un anno per giungere al traguardo, quale che ne sia l’esito.

Perché, allora, Meloni tocca costantemente questo tasto? Per l’elementare ragione di innescare tra i cittadini l’idea che i problemi del Paese (della «Nazione», direbbe la premier) non si risolvono per mancanza di un «guidatore» che abbia praticamente i pieni poteri. Tale approccio - oltre ad essere pericolosissimo - è il prodotto di una quotidiana (e, più o meno sommersa) azione di compressione dei diritti. L’occupazione del sistema mediatico, le nomine negli alti gradi degli apparati pubblici, il fastidio nei confronti degli organi di controllo (Corte dei Conti, Autorità antitrust e altri a seguire) stanno restringendo i margini di espressione, che sono il fondamento delle democrazie liberali.

Non c’è, in questa visuale, spazio per un controllo effettivo sulle scelte di governo. La sfida di Meloni ha, però, un largo margine di rischio. Già oggi serpeggiano spinte critiche verso l’esecutivo, perché la realtà indica molte inefficienze: bassi salari, sanità in sfacelo, sistema scolastico in affanno, conti pubblici a livelli preoccupanti. Insomma, un Paese molto lontano dai cantori dell’epopea meloniana. Le scelte a senso unico stanno facendo allargare lo scontento tra le fasce più deboli della società. In merito torna alla mente il monito di Churchill: l’opposizione spinga il premier a misurarsi sugli aspetti delle esigenze dei cittadini. Non è tempo di «filibustering» ma di proposte alternative.

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