Riconoscere il dolore altrui: cura ai conflitti

MONDO. Nella storia di Israele il 7 ottobre 2023 rappresenta il giorno del «pogrom», quando si è materializzata la più grave caccia all’ebreo dai tempi della Shoah: 1.400 persone uccise dai miliziani di Hamas, cercate e giustiziate una a una, compresi i bambini ancora nei loro letti e le donne, che hanno subìto anche di violenze sessuali.

In proporzione al numero di abitanti, l’attentato terroristico ha prodotto più vittime degli attacchi dell’11 Settembre negli Usa. Lo Stato ebraico è sotto choc e anche gli importanti scrittori pacifisti dei quali il Paese è ricco, hanno preso posizione in difesa del proprio popolo, senza cercare giustificazioni alla strage compiuta dai militanti islamisti. Tra le vittime c’erano pure persone impegnate per il dialogo con i palestinesi e per l’evacuazione dalla Striscia di Gaza di bambini gravemente malati per garantirgli le cure necessarie. La ferita del 7 ottobre rivive quotidianamente anche per via del destino incerto dei 240 ostaggi catturati da Hamas, fra i quali neonati.

L’abominio ha provocato la reazione militare del governo Netanyahu che ha bombardato il nord di Gaza quasi a tappeto, provocando 14.532 morti, tra i quali più di 6mila bambini e 4mila donne. Non solo: l’evacuazione forzata di 700mila abitanti dal nord della Striscia ha concentrato due milioni di persone nel sud, in uno spazio lungo 20 chilometri e largo cinque, generando una devastante crisi umanitaria e sanitaria, per carenza di cibo, acqua, farmaci e carburante.

Il «pogrom» e la vendetta di Israele con l’obiettivo di detronizzare Hamas i cui militanti vivono tra la popolazione, hanno natura e genesi diverse. Ognuno dei due popoli vive il proprio dolore e in una condizione di paura: è ovvio, è umano. Ma chi abita al di fuori del conflitto dovrebbe mantenere una posizione di riconoscimento dell’altro, delle sue sofferenze, della sua dignità e dei suoi diritti, compresa la libertà: la pace necessita di questa capacità di vedere il prossimo e di voler garantite per lui le stesse tutele che chiediamo per noi stessi. E invece il dibattito sulla guerra è spesso polarizzato fra due estremi, nei quali ognuno denuncia il dolore di una parte sola: ma così non se ne esce. La pace non regge se non ha come cardine il riconoscimento delle ferite subìte e di quelle inflitte. Gli accordi firmati a Dayton (negli Usa) nel novembre del 1995 posero fine alla guerra in Bosnia. Ma ancora oggi lo Stato balcanico non può dirsi in pace, anzi: le divisioni fra le comunità sono rimaste quasi intatte, non curate da un percorso di riconciliazione. Basti pensare che i serbi di Bosnia non riconoscono il genocidio di Srebrenica, la città dove nel luglio del 1995 in pochi giorni furono trucidati oltre 8mila ragazzi e adulti bosgnacchi (bosniaci musulmani): derubricano questo abominio a una delle tante pagine tragiche del conflitto.

Ma la capacità di riconoscere l’altro, il suo dolore, la sua dignità e i suoi diritti riguarda ognuno di noi, privilegiati abitanti di luoghi non travolti dalla guerra. La violenza che segna le nostre società, da quella verbale a quella fisica, ha origine anche da un percorso di disumanizzazione del prossimo, come se fosse una presenza priva di un corpo e di un cuore capaci di soffrire per le nostre azioni e per le nostre parole. Molto si è dibattuto in questi giorni sui femminicidi, chiamando in causa il patriarcato, il maschilismo, l’incapacità di accettare la fine di una relazione e il distacco. Al fondo però c’è proprio il non saper riconoscere l’altro come diverso da noi ma portatore del nostro stesso valore e di istanze giuste, anche quando non le condividiamo. È su questo principio che si costruisce la pace ed è su questo principio che si definiscono comunità umane attraverso il ponte dei legami personali e dell’apertura verso chi ci risulta ignoto.

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