Referendum, equilibri
politici e sgambetti

Licenziata undici mesi fa dal Parlamento con una maggioranza bulgara (unici contrari, «Europa» di Emma Bonino e «Noi con l’Italia» di Maurizio Lupi), la legge sulla riduzione del numero dei parlamentari sembrava fosse una partita già chiusa in partenza. L’esito del referendum promosso da 71 parlamentari contrari al taglio non era in discussione. I sondaggi non lasciavano margini di dubbio: i favorevoli sono stati stimati stabilmente al di sopra del 50%, con punte superiori anche all’80%. Questo almeno fino a poche settimane fa. Quando tutto lasciava ormai intendere che la modifica istituzionale avrebbe avuto la benedizione pressoché unanime degli italiani, sono cominciate a levarsi voci contrarie. Poche, isolate, e per di più mal sopportate, quando non invise, dai vertici dei partiti: di tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione, che - come si ricordava - avevano apposto concordemente la loro firma al provvedimento.

I contrari alla riforma esprimono queste ragioni: riduzione irrisoria dei costi della politica, perdita di rappresentatività del Parlamento, interi territori privati di una rappresentanza al Senato, scompenso procurato al sistema istituzionale. Come si vede, sono obiezioni che possono far breccia nel ristretto cerchio degli addetti ai lavori, ma difficilmente hanno qualche chance di fermare l’avanzata vittoriosa del vasto fronte del sì. Falcidiare il vertice della Casta è una battaglia troppo popolare perché obiezioni di carattere costituzionale possano incrinare la voglia di un repulisti generale dei politici.

I fautori del taglio dei parlamentari hanno trovato, per di più, un’insperata sponda proprio laddove meno potevano aspettarselo, ossia tra i sostenitori del Parlamento come asse portante di una democrazia rappresentativa. Questi hanno intravisto nella riduzione del numero dei parlamentari la breccia utile a far crollare l’intero mosaico istituzionale aprendo così la strada a quella sua riforma complessiva più volte tentata (nel 2006 da Berlusconi, nel 2016 da Renzi) e sempre fallita. Battaglia quindi definitivamente persa per i promotori del no? Persa forse sì, ma con un possibile - fino a ieri impensabile - recupero che potrebbe, per di più, aprire loro nuove opportunità politiche. È già avvenuto in passato. Nelle altre (sopra richiamate) due verifiche referendarie delle modifiche costituzionali, gli elettori hanno colto l’occasione della chiamata alle urne, non per esprimere un giudizio sul merito della misura adottata, ma per dare uno sgambetto al governo che aveva promosso la riforma. Un’occasione ghiotta, quindi, anche la presente per quanti non vedono l’ora di disfarsi di Conte che – si badi bene – non sono solo presenti tra le file della minoranza, ma pure tra quelle della maggioranza.

Sia tra i democratici che persino tra i 5 Stelle non mancano quanti, vuoi per ambizione personale, vuoi per una presa d’atto dell’insostenibile leggerezza della compagine governativa, vedrebbero di buon occhio o un rimpasto o persino un cambio di maggioranza. Non parliamo poi dell’opposizione. L’idea di mettere in difficoltà, con un successo dei no, la coalizione giallorossa sta prendendo tanta forza che cresce la schiera di quanti (ultimo in ordine di tempo il numero due della Lega Giorgetti) sono disposti a contravvenire ai propri capi – Salvini e Meloni – per il gusto di dare uno schiaffo al governo.

La prevista marcia trionfale dei sostenitori della riforma si sta insomma complicando. Cresce la spinta a ricercare nuovi equilibri politici, sia in Parlamento che all’interno dei partiti, dagli esiti imprevedibili. L’inquilino di Palazzo Chigi è avvisato.

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