Recovery, le sfide
che ancora restano

A Roma, come pure a Bruxelles e nelle altre capitali europee, ci sono validi motivi per essere soddisfatti e orgogliosi dell’approvazione a pieni voti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) italiano. Un giudizio finale positivo da parte della Commissione Ue non era scontato fino a pochi mesi fa, così come non era scontata la capacità dell’esecutivo italiano di elaborare un Pnrr all’altezza (anche in termini di riforme) in piena trasparenza e leale collaborazione con le autorità comunitarie. Una capacità tanto più apprezzata a Bruxelles, visto che il nostro Paese è il principale destinatario – con 191,5 miliardi di euro fino al 2026 - dei fondi per la ripresa, avendo deciso di attingere sia alle sovvenzioni sia ai prestiti a tassi agevolati.

Sembra dunque riuscita, per il momento, la scommessa di quanti – anche a Berlino – hanno scelto di indebitarsi e di spendere in comune a livello europeo, vuoi per afflato ideale europeistico, vuoi per puntellare quel tessuto industriale del Nord Italia che è parte integrante delle catene del valore tedesche. Intanto il Governo Draghi vede aumentare credibilità diplomatica e capacità negoziale, e il Paese vede rafforzarsi credibilità sui mercati finanziari e capacità di crescita economica.

Adesso però è ovvio che l’attenzione debba concentrarsi sulle numerose sfide all’orizzonte. Vediamone alcune fra le principali. La prima: l’Italia, nei prossimi sei anni, dovrà mostrare una inusitata continuità nell’attuazione delle scelte di politica economica compiute oggi. Governo e Parlamento hanno siglato un impegno per riforme e investimenti in cambio di risorse europee. Dopo la fase del disegno delle riforme, della programmazione dei finanziamenti e dei bandi, fra circa tre anni entrerà nel vivo il dispiegamento delle risorse. Allora ci saranno un altro Parlamento e un altro Governo, agenda politica e dibattito pubblico potrebbero avere altre urgenze. L’Italia sarà in grado di non perdere di vista le priorità riformatrici e di spesa definite nell’attuale e difficile situazione?

Il Paese dovrà mostrare inoltre coesione istituzionale per cogliere appieno le possibilità teorizzate nel Pnrr. Si pensi al rapporto Stato-Regioni. Definendo la governance del Pnrr, l’esecutivo ha stabilito che in casi di ritardi di Regioni, Comuni o enti, il presidente del Consiglio possa esercitare poteri sostitutivi. Per il momento nessun presidente di Regione o sindaco se l’è sentita di opporsi a una simile impostazione (peraltro già prevista dalla legge 241 del 1990 sul procedimento amministrativo), ma quali garanzie ci sono che il conflitto istituzionale centro-periferia non possa risorgere al manifestarsi concreto dei soldi da spendere?

La terza grande sfida riguarda il ruolo della Pubblica Amministrazione. Tra risorse del Pnrr, fondi strutturali europei e spesa ordinaria, a Bruxelles qualcuno dubita che il nostro Paese possa «digerire» tanta spesa pubblica, considerato il nostro «curriculum» in tema di utilizzo delle risorse comunitarie. Non è un dubbio peregrino. Nel momento di massima disponibilità di fondi da investire da anni a questa parte, ci troviamo con una Pubblica Amministrazione relativamente dimagrita (3,2 milioni di dipendenti, 30 mila meno di un anno fa), sicuramente invecchiata (età media: oltre 50 anni), mediamente poco aggiornata e competente. Abbandonando per sempre la logica delle assunzioni nella P.A. come ammortizzatore sociale, occorrerà da subito ingegnarsi per ripopolare le nostre amministrazioni – anche locali - di profili professionali medio-alti in grado di seguire l’attuazione del Pnrr.

La riforma della Pubblica Amministrazione si lega a una quarta e ultima sfida di ordine culturale, oltre che economico. In Italia è stata molto celebrata la svolta «espansiva» dell’Unione europea. Tuttavia sarà bene ricordare l’ovvio: l’obiettivo di Next Generation Eu non è certo un maggiore indebitamento in sé, visto che di debito pubblico ne abbiamo già in abbondanza, ma un’iniezione straordinaria di risorse per accompagnare le riforme e rendere il Paese più accogliente per l’imprenditoria e per una crescita autopropulsiva. Altrimenti, nel 2026, saremo di nuovo «beneficiari netti» degli aiuti europei, dimenticando tutto quello che ciò significa, vale a dire essere tra i Paesi più in crisi del continente.

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