Rebus giustizia, la bussola è lo Stato

Politica interna. Da settimane il tema della giustizia, con particolare riferimento al ruolo della magistratura, si è progressivamente caricato di polemiche sempre più aspre e, sovente, pretestuose. La partita in gioco è particolarmente alta, poiché si tratta di definire prerogative e modalità del loro esercizio di uno dei tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) che – secondo la profonda lezione di Montesquieu – sono alla base delle moderne democrazie.

Sull’argomento è intervenuto ieri il Capo dello Stato con la consueta pacatezza di toni, unita ad una decisa fermezza di argomenti. Mattarella, nel suo ruolo di presidente del Consiglio superiore della magistratura ha confermato – nell’adunanza del rinnovato organo di autogoverno della magistratura - il principio dell’indipendenza del potere giudiziario dalla politica. Ciò, naturalmente, non implica che l’operato dei magistrati possa svolgersi come se fosse avulso da ogni possibilità di intervento degli altri poteri dello Stato. Non a caso, in questi mesi, è tornato alla ribalta l’annosa questione dell’ordinamento normativo delle funzioni giurisdizionali. Senza voler entrare nel merito, si deve prendere atto che la recente riforma (intestata all’allora ministro Marta Cartabia) ha finito per ingarbugliare ancor più una matassa già molto aggrovigliata.

La storia del nostro Paese mostra come il rapporto tra politica e magistratura sia stato – con notevoli ondeggiamenti – perennemente controverso. Vent’anni orsono uno dei più acuti storici italiani, Raffaele Romanelli, osservava che era indispensabile riflettere sui rapporti che intercorrono tra magistrati e sistemi politici, e più in generale tra giustizia e potere. Tale esigenza deriva dal fatto che, nei Paesi di più antica tradizione garantista, l’estensione dei diritti civili a nuovi soggetti e a nuove dimensioni dell’esistenza individuale e collettiva sempre più spesso chiede ai magistrati di esprimersi su questioni di forte attualità politica che investono immediatamente i programmi dei governi e le scelte delle amministrazioni pubbliche. Siffatta situazione finisce per provocare possibili «sconfinamenti» da parte della magistratura. Nell’incrocio complesso dei rapporti tra politica e giurisdizione - in quanto funzioni formalmente separate nella cristallizzazione della «divisione dei poteri» – sono presenti tre pilastri (legalità, diritto, legittimazione) che fungono da sostegno del tessuto democratico, ma intorno ai quali si sviluppa una perenne competizione finalizzata a modificare gli equilibri in campo.

Le vicende politico-istituzionali degli ultimi decenni mostrano quanto l’intreccio tra potere politico e potere della giurisdizione abbia assunto curvature affatto particolari nel nostro Paese, determinando situazioni di frizione che sovente sfociano nello scontro e che, in ogni caso, creano una permanente condizione di crisi latente. Nei sistemi giuridici continentali il ruolo della giurisdizione - tradizionalmente condensabile nella formula del giudice «bocca della legge» e mero esecutore del dettato normativo - si è andato progressivamente avvicinando a quello sintetizzabile nella concezione anglosassone del «giudice dei diritti». La peculiarità del percorso di trasformazione dell’ordinamento giudiziario e, nello specifico, del ruolo della magistratura nel tessuto istituzionale e politico-sociale. Si tratta di capire attraverso quali strade una magistratura inizialmente tenuta nelle maglie di una stretta subordinazione al potere esecutivo abbia acquisito una forza d’urto tale da procurare ripetuti smottamenti negli assetti politici. In merito, occorre prendere atto dell’intrinseca politicità dell’operato della magistratura e del ruolo effettivo che la giurisdizione assume nelle dinamiche della società. Si tratta di un rebus di non facile soluzione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA