Quirinale, risiko
cui manca il regista

È un gran formicaio impazzito, questo mondo politico tenuto a bada dal governo Draghi e impaurito dalla scelta che dovrà fare per il nuovo presidente della Repubblica. Tutti parlano, si incontrano, tramano, lanciano segnali, ammiccamenti, riconoscimenti e il risultato è una grande confusione. Non c’è un regista, qualcuno che si incarichi di condurre le cose come successe con de Mita che fece eleggere Cossiga alla prima votazione, o con Veltroni che portò subito Ciampi al Quirinale. Ma già Bersani, dopo aver «quasi vinto le elezioni» e vanificata la possibilità di fare un governo, non riuscì ad eleggere il successore di Napolitano che infatti fu costretto a rimanere al suo posto per un paio di anni. Molti vorrebbero che la cosa si ripetesse con Mattarella: un biennio di transizione con il Presidente ancora al suo posto, Draghi a Palazzo Chigi fino alla fine della legislatura e poi si vedrà.

Per questo progetto – che dimostra l’impotenza delle forze politiche – sembrava che ci fosse un solo ostacolo: il «no» secco di Mattarella a restare su un trono che facilmente si potrebbe trasformare in una graticola. Ora però sappiamo che Draghi ambirebbe al Quirinale. Questo apre un’altra questione: se Draghi sale al Colle, chi va al governo? Forza Italia ha messo le mani avanti: in quel caso si va a votare subito. Proprio quello che nessuno vuole, né i partiti né i parlamentari (molti dei quali sanno che mai più vedranno Palazzo Madama o Montecitorio e tantomeno gli stipendi connessi alla carica). Forza Italia ha fatto la mossa – che ha irritato non poco Matteo Salvini – per l’unica ragione che Berlusconi ci tiene a comparire come candidato «vero» alla prima carica della Repubblica. Tanto ci crede che corteggia persino i Cinque Stelle («Quelli a Mediaset non li avremmo presi neanche per pulire i c…», disse un tempo) al punto da elogiare il reddito di cittadinanza che pure veniva bollata come «la pensione da divano».

In tutto ciò si affolla sempre di più la lista dei candidabili: da Paolo Gentiloni a Pier Ferdinando Casini, da David Sassoli a Dario Franceschini, dai sempreverdi Giuliano Amato, Sabino Cassese e Romano Prodi, alle donne Marta Cartabia, Paola Severino, Elisabetta Casellati o Rosy Bindi. Come ha detto Prodi, tra loro non vincerà chi ha più voti ma «chi avrà meno veti». Per pura notazione di cronaca va detto che negli ultimi tempi va crescendo la candidatura di Casini di cui abbiamo più volte scritto: con il suo pedigree potrebbe rappresentare la classica quadratura del cerchio.

Ma il problema resta sempre quello: manca un regista. Renzi aspira ad esserlo. Come lui, Letta. E Salvini non sta a guardare. Potrebbe provarci Draghi ma è parte in causa. Ad aggravare questa situazione c’è anche lo stato comatoso di quello che sarebbe in questo Parlamento il partito di maggioranza relativa: il Movimento Cinque Stelle è ormai l’ombra di se stesso, indebolito dalla guerra interna tra le varie bande, sull’orlo di una scissione e con un leader come Conte che non riesce ad imporsi, insidiato com’è da Di Maio da parte e da Grillo dall’altra. In un’altra situazione proprio lui, leader del maggior partito avrebbe potuto assumersi la guida della partita. Ma Conte non è riuscito neanche ad accettare la candidatura, offertagli da Enrico Letta, di candidarsi col Pd nel collegio parlamentare romano lasciato libero da Roberto Gualtieri divenuto sindaco della Capitale. L’«avvocato del popolo» avrebbe corso il serio rischio di farsi umiliare da Carlo Calenda, fortissimo in quel collegio e pronto a sbarrare la strada a lui come a qualunque tentativo di rafforzare l’intesa tra Pd e M5S.

© RIPRODUZIONE RISERVATA