Quello che resta delle primavere arabe: un cammino difficile

MONDO. Tunisia, Egitto, Siria. Oggi si può trarre oggi un bilancio di ciò che sono state le «primavere arabe».

In Tunisia il presidente uscente Said è stato appena riconfermato con il 90% dei voti, ma l’affluenza alle urne è crollata ai minimi termini. Le opposizioni non hanno partecipato alla consultazione e il capo dello Stato, un tempo presentato come la speranza democratica nel Paese della «rivoluzione dei gelsomini», è oggi etichettato in ambienti europei come «populista ed antidemocratico».

In Egitto solo l’ascesa al potere di un generale, Al-Sisi, ha riportato la calma in riva al Nilo dopo un lungo periodo segnato da tumulti, scandali e scontri nelle piazze. In Siria è andata peggio: qui è scoppiata la guerra civile con la distruzione di mezzo Paese, milioni di profughi e centinaia di migliaia di morti.

A 13 anni da quelle effervescenti giornate, piene di speranze per il futuro, si può trarre oggi un bilancio di ciò che sono state le «primavere arabe», con il tentativo di impiantare regimi democratici di stampo occidentale sulle rive sud-orientali del mar Mediterraneo e dalle parti del Golfo.

Diciamo subito che l’inizio delle rivolte fu contraddistinto da proteste spontanee di giovani, stanchi di dover sopportare corruzione e repressione, ma anche stufi di essere costretti ad emigrare all’estero per la propria precaria condizione economica. La loro richiesta era semplice: avere una vita migliore a casa propria come quella dei coetanei in America e in Europa.

La mancanza di veri leader

Veri leader di questi moti, prevalentemente pacifici, non ve ne erano. L’elemento nuovo semmai era determinato dalla partecipazione delle masse povere alle manifestazioni, che non erano ad appannaggio solo della media borghesia.

Proprio la mancanza di veri leader fu probabilmente la causa maggiore del fallimento delle «primavere arabe», poiché i giovani non furono in grado di organizzarsi in un’efficiente forza politica. E la cosa era logica: dopo decenni di poteri autoritari non vi erano le capacità per farlo.

In Siria le proteste, che scaturirono in una società ferita da massacri e lacerata da profonde differenze etnico-religiose, sfuggirono ben presto di mano. E per anni la tragedia di quel Paese ha tristemente riempito le cronache mondiali.

Uomini forti o furbi ed estremisti radicali – alcuni legati al mondo dello jihaddismo – hanno così avuto nel lungo periodo, quasi ovunque, la meglio su chi sperava in un’evoluzione diversa dal solito passato popolato da autocrati o peggio dittatori.

L’appoggio estero

A questo scenario deprimente va poi aggiunto l’elemento decisivo dell’appoggio dall’estero ai vari «uomini forti», gli unici – a giudizio di molte cancellerie – in grado di mantenere la stabilità e l’ordine. Proprio questo sostegno esterno, spesso finanziario, ha segnato il tramonto delle speranze nate con le «primavere arabe».

La democrazia è quindi esportabile? La risposta è «ni»

La democrazia è, quindi, esportabile in realtà con radici differenti dalle nostre e in società in ritardo rispetto all’evoluzione registratasi nel Vecchio continente, in America e in poche altre aree del mondo?

A nostro avviso la risposta è «ni» . Se, però, si sfogliano i report delle Ong esperte in materia si è colti da una forte delusione. L’unico sistema politico imperfetto che garantisce libertà e stato di diritto necessita del giusto corollario di elementi base per essere vincente.

Nelle realtà emergenti sono fondamentali il rispetto della Costituzione, delle istituzioni con corretti bilanciamenti dei poteri e soprattutto il limite invalicabile dei due mandati.

In ultimo, le leggi elettorali devono garantire pari condizioni e la piena partecipazione, lasciando fuori solo gli estremisti. Far quadrare il cerchio non è facile. Vero, presidente Said?

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