Quelle frustate
umiliano la pietà

E così possiamo aggiungere un’altra immagine-simbolo a quelle della nostra epoca disumana e brutale, della nuova barbarie che guarda al forestiero con disprezzo anziché considerarlo un proprio simile, calpestando i diritti più elementari senza un briciolo di pietà, senza quella legge morale che dovrebbe essere il riflesso del cielo stellato sopra di noi. Il video rimbalza nel globo, fino a imbarazzare la Casa Bianca, già duramente provata dalle devastanti conseguenze del ritiro dall’Afghanistan. Si vedono dei poliziotti a cavallo prendere a scudisciate alcuni migranti haitiani che tentavano di passare il Rio Grande, al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, come se fossero cowboy alle prese con degli animali selvatici. Quei poveri cristi fanno parte delle migliaia di anime accampate sotto un ponte nella città texana di Del Rio. Stavano tentando di portare cibo e altri rifornimenti dal centro di Ciudad Acuña, sul lato messicano del confine. A quel punto uomini a cavallo della polizia di frontiera hanno impedito il trasporto, nonostante nei giorni precedenti fosse stato accordato il permesso. Nelle immagini un ufficiale brandisce un laccio, un prolungamento delle redini, con cui colpisce in faccia le persone che trasportavano cibo. Altri agenti si scagliano contro i migranti con i cavalli.

Eppure si tratta dell’ennesima tragedia umanitaria. Migliaia di haitiani sono arrivati al confine scalzi, molti dei quali senza portarsi nient’altro che un paio di pantaloni e una maglietta, altri nemmeno quello, solo un paio di mutande. Un fiume di umanità che ha percorso le strade del Messico come in un girone dantesco, proveniente dalle malebolge di Haiti, la metà infernale dell’isola caraibica di Santo Domingo, dove un bambino su tre muore prima dei cinque anni, dove l’economia regredisce di continuo, danneggiata da due terremoti in pochi anni, un’epidemia di colera, condizioni igienico-sanitarie spaventose e dove recentemente il presidente è stato ucciso per un tentativo di golpe. Port-au-Prince, la capitale, è un ammasso infinito di tende e baracche che si estende dalle bidonville delle colline ai quartieri disperati come Cité Soleil, fino a giungere a ridosso del mare, mentre una forza di interposizione dell’Onu, la Minusta, pattuglia di continuo le strade per evitare che le gang rivali si scannino tra di loro fino a dilaniarsi. Secondo il Washington Post, molti di loro si sono messi in moto «già dopo il terremoto del 2010 stabilendosi in un primo tempo in Brasile o in Cile, ma la crisi scatenata dalla pandemia li ha ora spinti verso gli Stati Uniti». Altri, intervistati dalla Reuters, hanno spiegato di essere «fuggiti dal Paese, dopo l’omicidio del presidente Moise, e dopo l’ultimo terremoto».

Da tutto questo fuggivano quegli uomini presi a scudisciate con le redini e con i frustini. Gli Stati Uniti sono sempre stati la principale meta dei disperati haitiani in cerca di un rifugio, una casa e un lavoro come donna delle pulizie o fattorino a Miami o a New York.

Ma l’America, la nazione costruita dagli immigrati inglesi, tedeschi, irlandesi, italiani e dalle numerose etnie che orgogliosamente compongono il tessuto di un popolo che domina il mondo, è diventata una matrigna incapace di accogliere altre anime in pericolo. Dall’amministrazione di Washington arrivano le dichiarazioni di sdegno e l’ironia dei giornali per la patina progressista che avrebbe dovuto avere il governo di Joe Biden. Si annunciano commissioni d’inchiesta per accertare fatti che sono sotto gli occhi di tutti. Ma intanto nessuno fa niente per quella povera gente. Tranne annunciare voli charter per riportare quei disperati alla casella infernale di partenza.

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