L'Editoriale
Giovedì 16 Febbraio 2023
Quel processo è diventato un campo di battaglia
Il commento. Dunque Silvio Berlusconi ha trovato il suo giudice a Berlino: è stato assolto dall’accusa di corruzione in atti giudiziari nel processo milanese sul cosiddetto caso «Ruby ter», «perché il fatto non sussiste». Tutti assolti gli imputati, a cominciare dalle «ex olgettine», oltre che Karima el Mahroug, la celeberrima «Ruby Rubacuori» nonché «nipote di Mubarak», qualcuno prosciolto per prescrizione per le posizioni minori.
Col dispositivo letto dai giudici della Settima sezione penale di Milano, dopo poco più di due ore di camera di consigli e oltre sei anni di processo, sono così cadute le accuse di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza. In attesa delle motivazioni le toghe hanno diffuso un comunicato che spiega le ragioni fondanti del verdetto. In parole povere quelle accuse non ci potevano stare, perché il reato – secondo il codice penale - si applica solo a dei pubblici ufficiali, quale è un testimone in un’inchiesta e in un’aula di tribunale. Mentre le olgettine non erano testimoni, bensì indagate per reato connesso. Non c’è processo perché non c’è reato e non c’è reato perché non c’è il testimone che ha commesso il reato. Dunque non esistono né corrotti (le ex olgettine) né corruttori (Silvio Berlusconi). E non c’è falsa testimonianza per chi non è testimone. È un principio giuridico. Si potrà discutere sul principio ma questa è la legge e i giudici non hanno fatto altro che applicarla. Il che la dice lunga sulle accuse di magistratura politicizzata che piovono sul Terzo Potere un giorno sì e uno no. Significa che il nostro sistema, per disastrato e lento che possa essere, funziona.
Il tribunale ha totalmente rigettato richieste del pubblico ministero che tutte insieme sommavano 100 anni di carcere. Viviamo in uno Stato di diritto, non in una dittatura autocratica dove giudici e accusa vanno di pari passo nello stesso processo di sopraffazione dell’imputato (questo forse potrebbe aiutarci a riflettere sulla separazione delle carriere che tanto vorrebbe una parte del Parlamento, fino addirittura a far dipendere l’accusa dalla politica come negli Usa, naturalmente senza il complicato e raffinato sistema di contrappesi che esiste in quel Paese).
Si conclude così una vicenda iniziata oltre undici anni fa, in un’altra epoca e in un altro contesto, quando il Cavaliere era a Palazzo Chigi ed esercitava un potere pubblico ben maggiore, anche se ancora oggi è il leader di un partito alleato di governo.
Naturalmente la sentenza ha diviso il mondo politico e giornalistico in due. Da una parte c’è chi grida al «cavillo» giuridico, dall’altra alla persecuzione e alla magistratura politicizzata (naturalmente quella dei pm) in primis i deputati di Forza Italia. Il capogruppo del partito berlusconiano Alessandro Cattaneo chiede addirittura la calendarizzazione urgente per proporre una commissione d’inchiesta sull’«uso politico della magistratura» e non si capisce se faccia sul serio o sia una provocazione, come fanno sapere – cercando di minimizzare – i colleghi di Fratelli d’Italia. Tra l’altro la Meloni si era già esposta ritirando l’avvocatura di Stato dalla parte civile nel processo e non sembra disposta a ulteriori passi, a parte esternare una garbata soddisfazione per l’esito del dibattimento.
Le sentenze si possono criticare, ma vanno accettate e rispettate. La verità è che l’Italia è stanca di questa vicenda e ha altro cui pensare. Una vicenda che ha per troppo tempo, anche a causa delle lungaggini della giustizia italiana, calamitato l’attenzione della politica, diventando un campo di battaglia, anche con effetti collaterali gravi (ce lo ricordiamo il caso Boffo, un galantuomo che nulla aveva a che fare con quelle vicende, vittima di una miserabile patacca?). Non dimentichiamo che un movimento, quello dei 5 Stelle, è nato anche sotto la spinta dell’ostracismo al Cavaliere basato sulle sue vicende giuridiche. Naturalmente quelle vicende possono essere approfondite da chi ne ha voglia, dagli storici all’opinione pubblica. Su quello «sventolio di mutande», su certe condotte libertine, sui «bunga bunga» altrimenti dette «cene eleganti» basta rileggere libri e giornali dell’epoca e ciascuno potrà farsi un’opinione, anche morale, se non se l’è già fatta, ed esercitarla nell’urna, nella vita civica, nella passione politica, nella sua idea di educazione culturale ed etica. Tutto è stato già detto. Ma quello che si dovrebbe fare traendo spunto da questa sentenza è cambiare pagina perché il Paese ha ben altri pensieri nella testa. Se la politica tornasse a dividersi sfruttando questo verdetto, sull’onda emozionale delle reazioni, per battere a suo vantaggio il ferro storto di certe riforme sulla giustizia, la gente davvero non capirebbe.
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