Quei sassi sull’auto
Non è solo un reato

Cosa muove una persona a lanciare pietre su un’auto in corsa? È una domanda che non possiamo eludere se non vogliamo ridurre a un fatto di cronaca quanto accaduto domenica scorsa all’uscita della galleria Montenegrone, in direzione di Seriate: una vettura con a bordo due genitori e un bimbo di tre anni si è vista piombare sul parabrezza grossi sassi. L’abilità del papà alla guida e la tenuta del vetro che non si è frantumato hanno evitato la tragedia mortale, accaduta in passato altrove in Italia. C’è stato un periodo in cui i sassi dal cavalcavia delle autostrade erano il terrore degli automobilisti, un crimine spesso commesso da ragazzini e che per la verità si è solo diradato. Il movente che ne è stato dato in passato è la noia in cui sarebbe immersa la vita degli autori. Una lettura superficiale, che non va al cuore di un fenomeno che è più di un reato. Non mira a un guadagno, come un furto o una rapina, ma a un godimento perverso. È il segno di identità malate, che non hanno una coscienza del prossimo come di una persona da rispettare e con la quale convivere, ma ridotto a oggetto del proprio sadismo, sul quale costruire personalità ingannevolmente forti.

Altre due vicende, diverse per dinamica e obiettivo, rientrano in questo genere di violenza non predatoria ma altrettanto grave. Nella notte tra l’11 e il 12 luglio scorsi un venditore di rose è stato spinto nel Naviglio a Milano ed ha rischiato di annegare: pur sapendo nuotare, è stato colto di sorpresa dal gesto, compiuto mentre dava le spalle alla Darsena. La vittima in questo caso è un pover’uomo di 55 anni, originario del Bangladesh, dove ha lasciato moglie e 5 figli, con regolare permesso di soggiorno (ma se fosse stato irregolare non cambiava niente in questo fatto compiuto da vigliacchi). «Ho avuto paura di morire, neanche sul barcone con il quale sono arrivato in Italia mi sono sentito così» ha detto. Ha conosciuto tutte le croci di chi emigra, comprese le torture in Libia. Guadagna venti euro a sera vendendo fiori, raccogliendo le briciole della movida milanese: al netto delle spese per l’affitto e per mangiare, manda soldi a casa e mantiene la numerosa famiglia. Che si è allarmata perché non rispondeva più al cellulare, finito sui fondali del Naviglio. I due aggressori non sono stati individuati.

A Roma invece, da quando è finito il lockdown, bande di ragazzi sono in azione a Trastevere: travestiti come nel film «Arancia meccanica», di notte si aggirano nel quartiere sputando su maniglie e citofoni delle abitazioni e generando panico tra i residenti, che temono possibili contagi di coronavirus. «I livelli di violenza toccati ogni notte, ormai non più soltanto nei fine settimana, sono inimmaginabili» dicono gli abitanti, che hanno presentato esposti in Procura e ai carabinieri. La polizia locale è intervenuta chiudendo alcune tra le principali piazze della movida romana, per evitare assembramenti e condotte illecite.

Persone in auto, migranti soli e residenti: questa violenza, che non vogliamo chiamare gratuita per non darle una patina di neutralità, prende di mira persone indifese, si camuffa e scappa. Si diffonde ed è espressione di un disagio non percepito o mai affrontato. Ma non è figlia della noia, che può essere anzi una condizione generatrice di creatività, se ben guidata. È un’urgenza che va affrontata, incanalando queste esistenze annegate nel cinismo verso la positività della vita. Non è un impegno facile ma non c’è alternativa se non vogliamo ridurre alla parola reato fenomeni criminali che hanno risvolti sociali e ricadute sulla convivenza civile. Il confine tra la vigliaccata, il godimento per un atto violento e la tragedia mortale è molto sottile. Ed è solo la buona sorte che ha evitato lutti nelle vicende raccontate, alla galleria Montenegrone e a Milano.

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