Quei figli perduti
e la ragion di Stato

Quanto vale la verità sull’uccisione di un giovane? Vale più di commesse militari miliardarie? Le domande, poste nella loro essenzialità, ci riportano al centro di una tragica vicenda che si trascina da troppo tempo. Il 25 gennaio 2016 viene rapito al Cairo Giulio Regeni, 28 anni, dottorando dell’Università di Cambridge, in Egitto per condurre una ricerca sui sindacati locali. Il suo corpo, con segni di tortura, verrà ritrovato il 3 febbraio successivo in un fosso lungo l’autostrada per Alessandria, nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti. Ufficiali del regime di Abdel Fattah al-Sisi attribuiscono la morte a un incidente stradale, nel chiaro, deprimente tentativo di confondere le acque. Ad oggi è più di un anno che la Procura di Roma, competente per l’indagine, non ha più contatti con la magistratura del Cairo, dopo aver iscritto nel registro degli indagati 576 giorni fa 5 uomini dei servizi segreti egiziani. Una rogatoria è in attesa di risposta da oltre 400 giorni. Il muro eretto dalla dittatura è un’implicita conferma che l’omicidio è stato commissionato ad alti livelli. Ma nel marzo 2016 gli inquirenti arabi rilanciano la pista della criminalità comune: la polizia del Cairo uccide 5 persone di una banda di sequestratori che sarebbe responsabile della morte di Regeni. La prova? Nel covo del gruppo viene ritrovato il portafogli del dottorando con i suoi documenti. I 5 risulteranno poi estranei al caso.

La politica italiana, salvo eccezioni, non si scalda per la vicenda. Il governo ritira per qualche mese l’ambasciatore, ma senza effetti. A fare pressione perché si giunga alla verità resta l’ostinazione ferita dei genitori di Giulio, Paola e Claudio, e di una campagna che non ha ribalta mediatica, seppure Regeni fosse un cittadino italiano morto in circostanze atroci. A questo delitto dai sottofondi oscuri fa seguito il 7 febbraio scorso l’arresto al Cairo di Patrick Ziki, 27 anni, ricercatore dell’Università di Bologna appena rientrato dall’Italia e tuttora in un carcere di massima sicurezza, dove è stato torturato e gli sono state chieste informazioni su Regeni. L’elemento d’accusa sono alcuni post su Facebook contro la dittatura, ma su un profilo che sarebbe falso. Ma la voce del governo Conte è flebile, in proporzione alla gravità del fatto.

È di questi giorni la conferma di un accordo commerciale militare, con il via libera del Consiglio dei ministri, già ventilato mesi fa: l’Italia ha siglato un’intesa col regime di al-Sisi per la vendita all’Egitto di due fregate prodotte da Fincantieri per un valore di 1,2 miliardi di euro. Ma questa prima commessa è il preludio a una seconda più corposa: la fornitura di almeno quattro fregate, pattugliatori e 20 aerei d’addestramento M-346 prodotti da Leonardo, per decine di miliardi. In tempi di crisi un bell’affare, niente da dire. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (l’avvocato degli italiani…) è stato chiamato a riferire «urgentemente» alla commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto del ricercatore.

L’operazione ha anche un risvolto strategico. Conte non vuole lasciare campo libero alla Francia, che del rafforzamento in Nord Africa a discapito dell’Italia fa da anni un obiettivo costante. E in Egitto non siamo debuttanti: attraverso l’Eni gestiamo infatti importanti giacimenti di gas. Il governo spera che questa collaborazione economica apra una nuova strada a quella politico-giudiziaria sul delitto Regeni. Ma intanto a vibrare resta solo la voce ostinata dei genitori di Giulio e di qualche militante della giusta causa.

Un’ostinazione che ricorda quella del papà e della mamma di Ilaria Alpi, la giornalista Rai uccisa in un’imboscata a Mogadiscio a 32 anni, il 20 marzo 1994, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin. Aveva messo gli occhi su un traffico internazionale di rifiuti tossici e armi: dall’Italia e da Paesi dell’Est arrivavano armamenti alla Somalia, pagati col permesso di seppellire in loco sostanze nocive. Per il duplice omicidio, nel 2002 è stato condannato ingiustamente a 26 anni il cittadino somalo Hashi Omar Hassan, accusato di essere uno dei membri del commando. Ne ha scontati quasi 17 prima della revisione del processo e della sentenza del Tribunale di Perugia che lo ha assolto «per non aver commesso il fatto».

Ad oggi restano ignoti mandanti e autori dell’imboscata. Nel marzo scorso è stata chiesta l’archiviazione dell’inchiesta, anche perché nel frattempo sono morti i genitori di Ilaria, Luciana e Giorgio, che hanno combattuto come leoni per risalire alla verità ma scontrandosi contro un muro di omissioni. Soprattutto la madre, piena di dolore, ha lottato fino quasi a consumarsi. «Sono stanca di illudermi. Ma farò di tutto perché l’inchiesta non finisca in archivio» è stata una delle sue ultime dichiarazioni. Cuore di mamma.

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