Quanto peso può sopportare
un popolo tutto in una volta?

Poche ore dopo le esplosioni che martedì scorso hanno devastato mezza Beirut, Jenan Moussa, libanese, una delle giornaliste più informate della regione, ha scritto su Twitter: «Quanto peso può sopportare un popolo tutto in una volta?». La domanda rende l’idea della gravità dell’accaduto. Il Paese dei cedri è un corpo ricoperto di ferite, non tutte rimarginate. La guerra civile durata 15 anni (1975-1990), il conflitto con Israele nel 2006, l’afflusso sul proprio territorio di un milione di rifugiati siriani che hanno trovato accoglienza, un affascinante ma precario equilibrio tra confessioni religiose e una classe politica corrotta e incapace di affrontare le riforme necessarie, che ha portato il Libano al default.

La lira libanese ha perso l’80% del valore (è saltato il cambio fisso col dollaro che resisteva da 22 anni) e la popolazione ha visto crollare in pochi mesi il proprio potere d’acquisto. Un cittadino di Beirut ha esemplificato la situazione a un cronista del New York Times con queste parole: «Prendi il tuo stipendio e dividilo per nove, capirai cos’è successo».

La devastazione del porto della capitale non è solo un’enorme tragedia per il numero di morti, di dispersi, di feriti, di sfollati e di case distrutte. Il luogo infatti è l’arteria essenziale che tiene in piedi lo Stato che non produce quasi nulla, vive di commercio e importa quasi tutto: qui arriva il 60% delle merci. Il 90% del grano consumato dai libanesi è importato e custodito in quei silos da 120 mila tonnellate che abbiamo visto torreggiare nelle foto del porto. Al momento delle esplosioni per fortuna erano quasi vuoti e quattro navi con 28 mila tonnellate di grano erano in attesa di attraccare. Le riserve di farina dovrebbero bastare per un mese e mezzo. C’è però lo spettro di una carestia a medio termine. Due milioni di libanesi (su 5 milioni di residenti) rischiano la fame. Stanno arrivando gli aiuti internazionali ma è l’economia libanese che deve cambiare valorizzando le intelligenze locali al di là delle appartenenze.

Ma quella domanda così bruciante e vera («Quanto peso può sopportare un popolo tutto in una volta?») vale anche per altri Paesi, a cominciare dalla Siria. Vittima di una guerra per procura (delle potenze mondiali e regionali) che dura da dieci anni, 400 mila morti, 100 mila scomparsi, metà della popolazione sfollata, il 60% delle abitazioni inagibili, una generazione che è cresciuta vedendo solo combattimenti e nessun robusto piano di pace all’orizzonte.

Il quesito si addice anche allo Yemen, entrato nel quinto anno di conflitto, anche in questo caso per procura (si contrappongono Iran e Arabia Saudita, alla quale l’Italia fornisce armi): dal 2015 ci sono stati almeno 16 mila morti, 14 milioni di persone (metà della popolazione) è a rischio di carestia, 85 mila bambini hanno perso la vita per malnutrizione.

Cambiando continente, incontriamo altri Stati nelle stesse condizioni. In particolare il Congo, oggetto della prima guerra mondiale africana, come la definì l’ex segretario di Stato Usa Madeleine Albright, perché impegnati eserciti di almeno sei Stati vicini all’ex Zaire. È preda di un conflitto che dura dal 1996, con interruzioni: ha provocato 4 milioni di morti, per via dei combattimenti e delle precarie condizioni alimentari e sanitarie. La ricchezza del sottosuolo - diamanti e coltan, materiale utilizzato per fabbricare smartphone - è anche la sua maledizione, ambita da multinazionali e Stati protettori. Come se non bastasse, il Congo è stato investito da ondate di Ebola.

Le nazioni citate, martellate da guerre e interessi sporchi (non possiamo non ricordare anche la Somalia) stanno facendo pure i conti con la pandemia di Covid. Quanto peso può sopportare un popolo tutto in una volta?

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