Quando la noia
ci aiutava a vivere

Viviamo sott’acqua. Completamente immersi senza respiro nella società «liquida» e globalizzata teorizzata da Bauman; quella del tutto e subito, delle comunicazioni sovrabbondanti e in tempo reale. Tutti noi sappiamo bene come ogni aspetto della contemporaneità esiga una perfetta organizzazione individuale e familiare. Occorre affrettarsi, palpitare, correre come e più degli altri per raggiungere ogni giorno grandi e piccoli obiettivi, poco importa se importanti, utili o futili. Ogni attesa equivale ormai a una perdita di tempo, ad una sorta di scomodità inopportuna. L’occidente chiassoso, disorientato e interconnesso ha drammaticamente dimenticato il valore di quel salvifico frattempo che ci separa da ogni meta, insegnandoci che «desiderare» è spesso molto più gratificante di «possedere».

Attendere deriva dal latino «ad-tendere» che significa distendersi, aspirare, mirare. Disporsi, cioè, nella giusta serenità d’animo per cogliere i particolari della vita, per ascoltarsi in profondità, per scoprire aspetti e scintille di sé impossibili da intercettare nel vortice di un’esistenza sempre in preda all’impazienza, all’agitazione, ad un conflitto dialettico il più delle volte sopra le righe e fine a se stesso. La giornalista tedesca Andrea Köhler, corrispondente dagli Stati Uniti del quotidiano svizzero Neue Zurcher Zeitung, nel suo recente saggio «L’arte dell’attesa» analizza cosa significhi realmente l’attesa nelle nostre vite, valutando tutte le diverse variabili che ci portano ad attendere, siano esse riferite all’amore o al lavoro. Tutti quei momenti in cui siamo in attesa che succeda qualcosa, oppure che qualcuno arrivi, che ci tengono in bilico tra la gioia e l’ansia. Essere con la testa e con l’animo in attesa di qualcosa di positivo che deve accadere è un momento unico secondo la Kohler, che può essere paragonato alla gioia di quello che deve succedere, così che spesso l’attesa del piacere divenga essa stessa piacere.

Facile a dirsi, molto più complicato di un tempo a realizzarsi, visto che gli spazi morti a nostra disposizione sono ormai praticamente nulli a causa della multimedialità social, con annessi e connessi. Faccine sorridenti, cuoricini colorati, like e pollici all’insù. Ogni attesa - in metropolitana, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, negli studi medici, negli uffici pubblici, ecc. - è buona per una facile distrazione a discapito di un’onesta riflessione. E così, pur con qualche indubbio vantaggio in termini di opportunità di svago e accelerazione e reattività dei nostri processi cognitivi, abbiamo demonizzato il concetto di noia. Ci siamo auto convinti come società che la qualità conti più della quantità. Lo affermano anche molti genitori in carriera per alleviare rimorsi e rimpianti verso adolescenti rimpinzati di materialità e poco altro. Come se la qualità di una relazione, di qualsiasi relazione, non avesse assoluto bisogno dei suoi tempi fisiologici, compresi quei meravigliosi momenti di estemporaneità che sono alla base nel tempo dei nostri ricordi più belli, autentici e nostalgici.

Basterebbe ripensare per un attimo alle nostre adolescenze semplici fatte di giornate interminabili piene di noia, disorganizzate, rattoppate, spesso in luoghi anonimi come cortili o campagne un po’ brulle. Basterebbe risentire quegli odori e ripensare a quelle difficoltà per tornare a farci brillare gli occhi. Per capire, soprattutto, quanto quella noia fosse alla base dell’inventiva; della capacità di arrangiarsi con intraprendenza, andandosi a cercare il divertimento e l’amicizia che poi ci è rimasta dentro per sempre, indicandoci la rotta.

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