Qualità della vita
priorità in medicina

Se ci poniamo dal punto di vista di un ammalato, possiamo chiederci quali siano le attese in rapporto con la somministrazione di una terapia, sia essa farmaco, intervento chirurgico, fisioterapia o psicoterapia. Indubbiamente l’attesa è il ritorno alla situazione di prima il più presto possibile con la prospettiva di una vita di nuovo «normale». Ciò vuol dire, in pratica, guarire da una malattia o allontanare il pericolo di morte. Poiché le terapie sono raramente «miracolose», dobbiamo accontentarci in generale di effetti parziali.

Occorre distinguere un effetto acuto da una situazione cronica. Un’appendicite spesso si risolve con un trattamento antibiotico o con un intervento chirurgico. Per un dolore acuto esistono farmaci proporzionali all’intensità del dolore che in generale risolvono il problema.

Una ipoglicemia si cura con un po’ di zucchero, una mancanza di sali con una infusione e così via. I problemi diventano più complessi quando abbiamo a che fare con situazioni croniche. Se una persona ha molti fattori di rischio che possono favorire un infarto cardiaco, di solito si opta per la prescrizione di una statina per ridurre il colesterolo ematico e di un prodotto che controlla la pressione arteriosa. Tuttavia, l’effetto terapeutico non è garantito; difatti, se si trattano 100 persone, forse 2 dopo molti anni di trattamento avranno il vantaggio di non avere l’infarto, 5-6 lo avranno anche se hanno ricevuto i farmaci e tutti gli altri non avrebbero avuto in ogni caso l’infarto anche se non fossero stati trattati con i farmaci. Quindi la maggioranza delle persone non solo non avrà benefici, ma in alcuni casi avrà effetti collaterali e tossici.

In questo come in altri casi di malattie croniche, si tratta di stabilire se il probabile vantaggio è superiore ai probabili svantaggi che influenzano la qualità di vita. Ecco un termine che viene poco considerato in medicina, ma per cui esistono metodologie per misurarlo. Esistono infatti molte scale, sviluppate a livello internazionale e validate per la cultura e le abitudini degli italiani, che permettono di stabilire come nel tempo varia, migliorando o peggiorando, la qualità della propria vita. Dovrebbe essere obbligatorio in ogni studio clinico controllato inserire una scala per misurare la qualità di vita, in modo da avere a disposizione, al termine dello studio, non solo la misura dei benefici e dei rischi di una determinata terapia, ma anche la percezione che l’ammalato ha della differenza fra il prima della terapia e la situazione di vita durante e dopo la terapia.

Dovrebbe essere nella cultura dello sperimentatore e nelle richieste del Comitato Etico non ignorare la qualità di vita. A maggior ragione quando, come nel caso delle terapie antitumorali, i vantaggi sono molto piccoli - qualche settimana di vita in più - e la tossicità è spesso intollerabile. In molti casi tuttavia le terapie non risolvono una malattia, ma migliorano qualche sintomo. Ad esempio, alcuni farmaci diminuiscono il vomito e la sensazione di nausea di alcuni tipi di chemioterapia. Tuttavia lo spettro di sintomi sfavorevoli dello stesso farmaco e della chemioterapia è così molteplice da chiederci se l’eliminazione di un effetto collaterale sia veramente significativo. Proprio in questo caso una misura della qualità di vita ci può dire se migliorare un sintomo si ripercuota sulla situazione generale del paziente.

Un altro esempio: nella sclerosi multipla, una malattia neurodegenerativa, l’impiego della cannabis diminuisce la spasticità, un sintomo molto fastidioso; quindi, apparentemente la cannabis offre un beneficio. Ma una misura della qualità di vita non mostra alcun vantaggio, perché altri effetti indesiderabili della cannabis o altri disturbi legati alla malattia rendono irrilevante il vantaggio dell’eliminazione di un sintomo.

Ancora di più si impone la misura della qualità di vita, quando il paziente, ad esempio una persona anziana, si trova sottoposto alla somministrazione giornaliera di 10-15 farmaci al giorno. Le molteplici interazioni metaboliche e funzionali fra tutti questi farmaci, come pure la mancanza di evidenze di efficacia, dovrebbero rendere almeno obbligatorio misurare la qualità di vita per evitare che peggiori. D’altra parte, sappiamo già che certe combinazioni di farmaci aumentano la probabilità di andare incontro a forme di depressione o a una accelerazione della demenza senile.

In definitiva, l’accertamento della qualità di vita dovrebbe essere un obbligo etico per il ricercatore, ma dovrebbe essere una abitudine anche per il medico ospedaliero e del territorio, i quali dovrebbero tarare le terapie tenendo sotto costante controllo la percezione della qualità di vita di ogni paziente.

Questo impegno rappresenta una importante modalità per conoscere in modo più critico l’efficacia di un farmaco e per arginare il consumismo frutto del mercato della medicina.

*Presidente Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS

© RIPRODUZIONE RISERVATA