Programmare
fa la differenza

La conclamata scarsa programmazione nelle risorse e nell’organizza-zione da parte dell’Italia nell’ambito sanitario viene ritenuta una causa importante delle differenze di assistenza e di risultati tra noi e la Germania. Ma cosa vuol dire programmare? Fare dei piani? Pensare al futuro? Diciamo banalmente che significa porsi degli obiettivi di medio lungo periodo. Sotto questo profilo tutti, chi più chi meno, pianificano. La differenza è su cosa pensiamo debba essere un piano. E qui si vedono le differenze, tra chi prende la programmazione sul serio e chi invece lo fa perché è in qualche modo obbligato, senza dar seguito alle azioni che sono necessarie e lasciandosi al destino o, peggio, al fai da te. La diffusione della pandemia, sia nella prima ondata sia nei giorni che stiamo vivendo, ha evidenziato cosa succede se la programmazione si limita al solo esercizio numerico, come lo era ai tempi dei piani quinquennali della vecchia Unione sovietica. La Germania oggi fronteggia il virus con un sistema sanitario molto più forte rispetto a 10 anni fa, ha capito in tempo le implicazioni dell’invecchiamento della popolazione, ha potenziato la medicina territoriale e vanta uno staff infermieristico pressoché doppio del nostro. La Germania, quindi, ha programmato sul serio.

Ricordo che nel 2017 a Bonn ebbi il privilegio di assistere a un discorso di Angela Merkel in occasione dell’inaugurazione dello Dzne, un centro a cui il nascente e italiano Human Technopole, in cui ero personalmente impegnato, si ispirava. La Cancelliera citò le previsioni sull’aumento della non autosufficienza nel decennio successivo e affermò come la questione dovesse essere affrontata lungo tutta la filiera, dalla ricerca fino alla riorganizzazione del sistema sanitario con un’apposita allocazione di risorse. L’Italia, all’opposto, ha spesso inteso la programmazione come compito richiesto formalmente da Bruxelles ogni anno per il via libera ai nostri conti pubblici. Dopo, quello che succede succede, presi come siamo dalle perenni emergenze. Sul prossimo Recovery Fund, per esempio, la Germania ha deciso che utilizzerà la quota a fondo perduto per ridurre il già contenuto debito pubblico. Da noi, viceversa, la questione è se spendere «solo» i «nostri» 200 miliardi (in massima parte a debito) o utilizzare anche il Mes.

Ma c’è un secondo aspetto che deriva dal prendere o meno seriamente la programmazione: quello di fare scelte precise e di allocare le risorse per le priorità conseguenti, sottraendole all’ingordigia e agli egoismi della quotidianità, quella del «tutto e subito». Lo avevano ben presente i Padri Costituenti quando, oltre a scrivere che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, hanno anche sottolineato che «la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme». Lavoro e risparmio, elementi fondanti del patto sociale e strumenti per guardare con serenità al futuro, quindi per «programmare». Ebbene, oggi siamo in una situazione nella quale l’assenza di una programmazione presa sul serio porta nei fatti a «trascurare» questa parte del dettato costituzionale. Con riferimento al lavoro, i continui interventi emergenziali e di matrice assistenziale lo hanno reso sempre meno «conveniente». Se, negli ultimi tempi, persino un’ampia parte del sindacato chiede più attenzione al lavoro e meno al semplice sussidio, c’è di che preoccuparsi.

E per quanto riguarda il risparmio due sono gli elementi d’allarme. Il primo è il fronte crescente e strisciante di chi invoca una patrimoniale, non già per risolvere problemi e disuguaglianze una volta per tutte ma, semplicemente, per prendere altro tempo mantenendo gli squilibri e i privilegi esistenti. E facendo oltremodo passare l’idea che il patrimonio sia una specie di maltolto piuttosto che il frutto del risparmio dopo una vita di lavoro. Il secondo elemento di preoccupazione è nelle lettere che stanno arrivando ai correntisti e che annunciano gli interessi negativi sui conti correnti, come conseguenza delle politiche delle banche centrali e della necessità di non far costare il denaro agli Stati nazionali. Anche questa mossa, tecnicamente comprensibile, si configura, tuttavia, come una patrimoniale strisciante che colpisce di nuovo il risparmio.

Mi chiedo: siamo davvero sicuri che perseverare nelle urgenze del momento senza svolgere una seria (e anche un po’ dolorosa) programmazione sia la strada migliore per rilanciare la coesione sociale e la fiducia verso il futuro? Siamo davvero sicuri che il consiglio dei nostri nonni di lavorare e risparmiare non sia ancora oggi il modo migliore per costruire una società migliore?

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