Privatizzare le aziende, manca la strategia

ECONOMIA. Le polemiche sulla questione Ita, compagnia aerea non più di bandiera, sembrano, insieme alla contestazione immotivata di Paolo Gentiloni, più che altro un sintomo risorgente anti Europa da campagna elettorale.

Altiero Spinelli è sempre assente, incombe l’ombra di Charles De Gaulle nell’europeismo apparente del primo anno di governo sovranista. Convince poco la ragione ufficiale, e cioè che il governo voglia fregiarsi di una privatizzazione che oggettivamente contrasta con una cultura di fondo. I nazionalisti, di solito, vogliono il controllo dell’economia, non la sua liberalizzazione. E la controprova sta nel fatto che la stagione italiana delle privatizzazioni, con i suoi chiari (Bersani) e scuri (Prodi, D’Alema), fu sviluppata dalla sinistra, non mai dalla destra. Lo dimostrano altri dossier aperti: la rete Tim, l’ex Ilva, la nuova banca di Stato Mps. Lo dimostra lo sguardo di compatimento con cui è stata accolta la proposta di Antonio Tajani per la privatizzazione dei porti, che sarebbe una cosa mastodontica, che per ora è andata avanti solo a Rapallo. Se il nuovo leader non proprio carismatico di FI, vuole fare il liberale per non subire sempre le tendenze opposte dei suoi alleati, dovrebbe se mai sbloccare la questione della concorrenza, parlando chiaro a balneari e tassisti.

Per Ita, dopo 11 miliardi buttati via per salvare Alitalia, in un continuum indecoroso di casse integrazioni, scivoli e tutele sconosciute ai normali lavoratori, sarebbe un merito del governo se davvero ci liberasse da un incubo e portasse a buon fine, dopo il quasi regalo del 40%, la vendita a Lufthansa. Speriamo sia fatto in fretta, perché in Germania l’aria è pesante. Pesa, intanto, su Bruxelles la pressione di chi vede in un vettore rilanciato un pericolo per compagnie nazionali in affanno. Di nuovo, una questione di concorrenza negata, stavolta continentale. Certamente è di ben altra natura la decisione di mettere almeno 2 miliardi, come se avanzassero nei cassetti (vuoti) del ministro dell’Economia, sull’operazione rete Tim, portando lo Stato accanto al fondo americano Kkr nell’acquisizione - ai francesi piacendo - del 20%. Lo Stato è presente addirittura in due soggetti simili e distinti.

Tutto sembra sempre strategico e c’è già un uso eccessivo della «golden share», cioè la carta blocca tutto che uno Stato sovrano mette sul tavolo se vede in pericolo gli interessi nazionali. Ma golden share e presenza diretta statale nel capitale dovrebbero essere alternativi, non sommarsi. L’impressione è che tutto proceda un po’ casualmente e grande sia la confusione sotto il cielo del rapporto tra Stato ed imprese. Se ce ne sono alcune - come Eni, Enel, Leonardo, Terna – che fanno onore al modello. Per il resto non è obbligatorio dire che tutto ciò che è privato è meglio. Il caso Benetton-Autostrade, funestato dal disastro del ponte Morandi, è lì a dimostrarlo, gestito per di più dall’incompetenza di un ministro pentastellato che ha finito per statalizzare arricchendo il privato. E oggi l’infrastruttura autostradale è in sofferenza. Accoppiata ai no ideologici sui valichi, abbiamo avuto ad agosto le prove generali di una paralisi.

Il caso di Acciaierie d’Italia sembra bloccato, come è negli interessi concorrenziali dell’azionista indiano di maggioranza, non del futuro di quella che è potenzialmente la più grande fabbrica d’Europa e sempre potenzialmente la principale fornitrice del sistema meccanico italiano, ora costretto ad approvvigionarsi fuori casa. Finirà sovranisticamente per diventare tutta italiana con la testa a Roma? Ma in nome di quale politica industriale?

Lo stesso va detto per Mps, una banca che è stata tenuta in vita e alimentata con fondi statali definiti provvisori e quindi tollerati a Bruxelles, ma che ora deve decidersi. Qui la tentazione è di tenersela, ma «abbiamo una banca» è un’affermazione che non porta fortuna. La storia delle privatizzazioni italiane non è stata esemplare. Più spesso è stata solo un modo per trovare soldi. È un rischio anche attuale, e bisogna allora ricordare che i proventi dovrebbero essere usati non per alimentare la spesa, ma per ridurre il debito pubblico. Una speranza vana?

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