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L'Editoriale
Domenica 16 Febbraio 2025
Prendersi la responsabilità, Sinner riesce a battere anche la cultura dell’alibi
TENNIS. Quanti sportivi celebri hanno gridato al complotto e si sono arrampicati sugli specchi? La dignità di chi ha la coscienza pulita.
Della vicenda Jannik Sinner, che ha patteggiato tre mesi di squalifica con la Wada, l’Agenzia mondiale antidoping, per evitare il giudizio del Tribunale arbitrale dello sport, c’è un aspetto che colpisce, visti i tempi. Non affronteremo qui la futilità e l’ingiustizia dell’accusa, una pomata vietata dall’antidoping somministrata a sua insaputa da un fisioterapista incauto del suo team. A gridare allo scandalo sono soltanto un pugno di suoi avversari perdenti, che per toglierselo di mezzo invocano la corte del Tribunale essendo incapaci di batterlo sui campi da tennis. Fanno le anime belle e invocano lo «sport pulito». Ma dov’erano queste anime belle quando in passato sono esplosi casi ben più gravi? La vicenda di Sinner è un caso montato, una tempesta in un bicchiere d’acqua per soddisfare il bisogno di trovare una pecca nel numero uno, il ragazzo che sbaraglia gli avversari senza mai alzare la voce, abbracciandoli e consolandoli a fine partita, che macina vittorie con la stessa umiltà con cui affronta le sconfitte (poche)?
Sul piano sportivo non è affatto un dramma, visto che Jannik potrà tornare in campo a partire dagli Internazionali di Roma e affrontare tutti i tornei del Grande Slam, a cominciare dal Roland Garros e da Wimbledon. Sinner ha pagato, senza battere ciglio, una pena che non gli spettava, dimostrando di essere più grande di chi lo ha accusato.
La necessità della Wada
Era già stato assolto, ma la Wada, minata da altri scandali e da gravissime critiche (gli americani hanno ritirato i fondi perché la accusano di favorire gli atleti cinesi), per evitare una figuraccia e per dimostrare che esiste, ha voluto fare ricorso. Ma non le è rimasto che accusarlo sulla base della responsabilità indiretta, ovvero per non aver vigilato sul suo staff. Una motivazione risibile, tanto più che l’involontarietà dell’azione di Sinner è stata confermata. È chiarissimo che non aveva fatto nulla per migliorare le sue prestazioni. Anche perché non ne aveva bisogno. I suoi risultati sono frutto solo del suo talento e del suo cimento, del lavoro metodico, della disciplina ferrea e di una maturità fuori dal comune. Non è un unguento a fare di Sinner il numero uno del mondo.
Il gesto rivoluzionario di Sinner
Quello che colpisce è la motivazione con cui ha accettato il patteggiamento. L’essersi assunto la responsabilità a nome del suo staff, senza scaricare la colpa, cosa che avrebbe tranquillamente potuto dimostrare. E questo è un gesto inconsueto, quasi rivoluzionario, soprattutto in un Paese come il nostro in cui lo sport nazionale più diffuso è il tiro al bersaglio sulla responsabilità altrui. Lo sport, ma anche la politica, il lavoro, la vita in generale: colpa del sistema, colpa della sfortuna, colpa di qualcun altro. E lo scarico della responsabilità, se allarghiamo il campo alla dimensione sociale e politica, sembra lo sport nazionale dei nostri politici, dei nostri dirigenti, dei nostri manager. Una cultura dell’alibi che imperversa ovunque e che fa apparire il gesto di Sinner ancora più straordinario.
La dignità di chi ha la coscienza pulita
Lui ha fatto una scelta adulta, difficile e solitaria. Lo sport è pieno di atleti pescati con le mani nel sacco, per vicende infinitamente più gravi di quelle del campione altoatesino, che hanno dato la colpa ai loro medici, ai nutrizionisti, ai fisioterapisti. Quanti sportivi celebri hanno gridato al complotto, si sono arrampicati sugli specchi, hanno evocato misteriosi errori di laboratorio o hanno provato a trascinare nel fango tutto e tutti pur di salvarsi? Sinner no. Non una parola di troppo, non un’accusa. Solo la ferma dignità di chi ha la coscienza pulita.
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