Premierato, ora Meloni prepara la via di fuga

ITALIA. Dice Matteo Renzi, che di queste cose se ne intende: «Se Giorgia Meloni perderà il referendum sulla sua riforma del premierato, dovrà dimettersi, che lo voglia oppure no».

Sa benissimo, l’ex segretario del Pd ed ex presidente del Consiglio, che proprio lui, col suo precedente, sta in questi giorni tormentando la premier. Ricorderete che al referendum sulla riforma costituzionale elaborata dal centrosinistra, Renzi commise il terribile errore di dire: «Se perdo me ne vado». Lui era sicuro di vincere e voleva far capire a tutti che il dividendo politico sarebbe stato suo e solo suo; ottenne invece di coalizzare i suoi (numerosi) nemici contro di lui. Era l’occasione buona di sbarazzarsene: fargli perdere il referendum. E così accadde e Renzi fu messo alla porta di Palazzo Chigi.

Per un istante anche Giorgia ha commesso lo stesso errore. È stato qualche sera fa, al Festival dell’Economia di Trento, un’arena che la leader di Fratelli d’Italia sa essere assai poco amica della destra. E probabilmente per un’insopprimibile voglia di sfidare gli avversari, l’ha buttata la: «Sul referendum, o la va o la spacca», aggiungendo il fatale: «Non starò certo lì a scaldare la sedia». È stato un attimo, però. Devono essere corsi in parecchi, quella sera, ad avvertirla dell’errore commesso, scongiurandola di correggerlo alla velocità della luce, anche a costo di apparire un po’ troppo ballerina. Meloni che fa tutto di testa sua ma capisce perfettamente quando mette il piede su una buccia di banana, ha sterzato bruscamente, quasi un testa coda, al limite dell’irriverenza verso il popolo sovrano. Domenica è corsa in tv a dire: «Se va male? E chi se ne importa, io non mi dimetto di sicuro, anzi duro cinque anni». E poi: «Vorrà dire che agli italiani la riforma non è piaciuta, pazienza», quasi a sminuirne il significato che la destra ha sempre dato, identificandocisi, al rafforzamento del potere centrale, personalizzato nel presidente del Consiglio (vero premier, a quel punto) o nel presidente della Repubblica. Quest’ultima idea piaceva alla destra d’una volta, ai missini che erano fissati con la «Repubblica presidenziale»; il premierato piace alla destra di oggi che deve combinarlo con l’autonomia delle regioni secondo Salvini, e non è detto che la combinazione funzioni davvero.

Insomma, la schivata c’è stata. Ora Elly Schlein non la manda giù: «Lei scambia la riforma costituzionale con il suo destino personale». Renzi invece non gliela fa passare: «Si dovrebbe comunque dimettere», come lui. Già, perché il premierato è una specie di marchio di fabbrica del meloniano Fratelli d’Italia, lo chiedono da quando sono nati dalle ceneri di Alleanza Nazionale, e adesso che hanno i numeri (quasi) giusti, devono provarci per forza a conquistare la vetta: ma se non ci riescono, come non trarne le conclusioni? Sarà un bel problema. A meno che, come dicono le gole profonde del Palazzo, Meloni non abbia deciso di mettere insieme le politiche del 2027 con il referendum e trascinare le une con l’altro: se anche andasse male il test sulla riforma, un mare di voti personali salverebbe comunque Meloni dall’imbarazzante quesito.

È un’ipotesi, ma dicono che a Palazzo Chigi la stiano studiando attentamente, calendario alla mano, per calibrare i tempi giusti. Certo bisognerà anche sentire cosa ne pensa il Quirinale, fin dall’inizio sospettoso verso una riforma che a Mattarella piace assai poco e che vorrebbe poter riscrivere quasi daccapo se fosse ancora ai tempi in cui coi professori Leopoldo Elia e Roberto Ruffilli scriveva le riforme costituzionali targate DC. Quelle che non si videro mai la luce, né nella prima né nella seconda Repubblica. Con una sola eccezione: il pastrocchio del nuovo Titolo Quinto della Costituzione che ci affligge dai tempi del governo Amato.

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