Preistoria grillina
Nostalgia canaglia

Da quando hanno ricevuto in faccia lo schiaffo elettorale del 4 marzo, perdendo in un colpo solo alle Europee sei milioni di voti, la metà di quelli raccolti solo un anno fa alle politiche, i grillini non fanno che ripetere che occorre tornare allo spirito delle origini. Cioè al «Vaffa-Day» del 2007, per intenderci, quando Beppe Grillo girava l’Italia col suo comizio-spettacolo e infiammava le folle plaudenti svillaneggiando – appunto – tutto e tutti in nome di un «nuovo» che stava per emergere dal laboratorio della Casaleggio & Associati. All’epoca del V-Day parlare dei Cinque Stelle come di un possibile movimento di governo era come mettersi a raccontare barzellette: il gioco politico era tutto tra centrodestra e centrosinistra, Berlusconi e Prodi stavano facendo i loro (ultimi) giri di valzer e non era ancora piombata sull’Italia la crisi finanziaria del 2011. Faceva buon gioco a Grillo, attore unico della rappresentazione, con qualche amichevole partecipazione di Dario Fo, fare le linguacce a tutti urlando «Uscite, siete circondati».

I bei tempi dell’origine, insomma. Quando non era ancora arrivata la sequenza micidiale di sconfitte a ripetizione, e di sindaci eletti e cacciati nel giro di un solo mandato per manifesta incapacità. Meglio dunque tornare a quella fase corsara e scapigliata per tutti coloro che hanno mal digerito il governo con la Lega e persino l’abituccio ministeriale di Luigi Di Maio solo per ossequio al potere conquistato (che è pur sempre un bel soffrire).

Ma i piaceri della vita romana, dell’ossequio di funzionari e valletti, delle auto-blu (non si sente più parlare, in effetti, di una loro diminuzione) non ha del tutto cancellato il ricordo e la nostalgia dell’opposizione dura e pura, quella gridata a squarciagola in aula, quella della salita sui tetti della Camera e delle occupazioni del banco del governo, dello streaming (chi ne sente più parlare?), del proclamarsi orgogliosamente portavoce del popolo e non onorevoli.

Tanto più, appunto, che i militanti arrabbiati di ieri e gli onorevoli, appunto, di oggi, hanno dovuto trangugiare l’alleanza con Salvini, sino all’anno scorso un acerrimo nemico. Non solo: hanno sopportato anche il dilagare di Salvini, vero padrone del governo. Ma adesso non riescono a mandare giù il fatto che in un solo anno Salvini i voti li ha raddoppiati e Di Maio dimezzati. È fin troppo. Persino chi si è abituato a godere dei prezzi economici della buvette di Montecitorio non ne può più: basta, torniamo alle origini!

Già, ma come? Facendo saltare il governo? No, Luigi Di Maio ha detto che non si può, bisogna andare avanti, altrimenti si va alle elezioni e Salvini stravince e si prende tutto. Forse è proprio quello che spera il «Dibba», il più amato del movimento, quello che è rimasto fuori del potere e si è messo a girare il Sud America, e quando è tornato e ha visto il disastro elettorale si è subito messo a criticare il suo fratello-coltello Di Maio. Obiettivo neanche nascosto: prenderne il posto tornando all’opposizione. Un’idea ce l’avrebbe il presidente della Camera Fico: far saltare il governo con Salvini e allearsi con Zingaretti e Fratoianni, un governo Pd-5S-sinistra. Idea che non piace a molti nel movimento e che non è neanche sicuro che piaccia (almeno adesso) allo stesso Zingaretti che pagherebbe il prezzo di una scissione dei seguaci di Renzi e Calenda. Quel che pensa Grillo non è noto: dalla villa di Genova del fondatore si odono solo dei brontolii. Quanto a Casaleggio jr. pensa quello che Di Maio dice: i due sanno benissimo che insieme possono stare in piedi, insieme possono cadere. E quindi si va avanti così, finché dura, e poi si vede.

Tutti gli altri personaggini di seconda e terza fila si muovo impazziti intorno ai capi-corrente e si chiedono come andrà a finire e se davvero il movimento abbia imboccato la strada del tramonto. Come diceva qualcuno: «A noi, quando ci ricapita?».

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