Politici da saloon, rischio escalation

MONDO. Tempo di elezioni, tempo da toni forti. È così da sempre. Il problema è che il degrado verbale oggi non ha più limiti. Il cattivo gusto e la maleducazione sono ormai fuori controllo, come continui sono gli insulti, a volte pesanti.

La ragione di questa brutta china è semplice da trovare: soprattutto da dopo il Covid i social media hanno abituato la gente all’aggressività; in rete vengono sfogate rabbia e frustrazioni. Un messaggio per essere vincente deve essere elementare, primitivo e chiaro. Meglio ancora se graffiante e irridente.

I politici, che hanno la necessità di parlare proprio a quella gente, si sono abbassati a tale lunghezza d’onda ed hanno trasportato dal mondo virtuale alla realtà quotidiana quel modo di comunicare. L’avere a che fare con opinioni pubbliche, spesso polarizzate, il cui livello culturale è sprofondato negli ultimi anni – anche nei Paesi più evoluti – li induce poi a superare linee rosse, prima mai nemmeno sfiorate.

Purtroppo, però, non ci si rende nemmeno conto che l’applicazione di tali tecniche comunicative causa conseguenze serie se si passa dalle beghe di un condominio o di un piccolo borgo a quelle internazionali, intersecando quelle nazionali. Si possono innescare processi pericolosi. Il rischio di una escalation di eventi negativi – quelli veri! –, provocata da parole pronunciate senza riflettere troppo, è quantomeno possibile.

Qualcuno, scusate, si è mica dimenticato che, ad esempio, nel Vecchio continente, dopo 7 decenni, è tornata la guerra? E che irresponsabilmente qualche leader è giunto a minacciare l’uso dell’arma atomica? È bastato sfogliare negli ultimi tempi le pagine di cronaca per leggere espressioni, pronunciate addirittura da leader, come «str…», «demente» o roba del genere. In precedenza «assassino» è stato l’epiteto regalato da un presidente ad un collega straniero davanti alla tivù, mentre conversava con un sostenitore.

Le «stanze dei bottoni», dove i leader di solito si incontrano, potrebbero di questo passo essere trasformate in saloon per chiarire i rapporti personali e non a dirimere questioni di Stato. Agli ex presidenti o capi di Governo qualche licenza in più gliela si può concedere, ma senza esagerare, anche se qualcuno, come Dmitrij Medvedev, ha sbalordito le opinioni pubbliche per alcune affermazioni, catalogate in Occidente anche come volgari, scritte ad uso e consumo della propaganda interna.

Ma analizziamo l’ultimo, in termini cronologici, scambio di «complimenti», avvenuto – lo si tenga ben presente – nei giorni antecedenti alle Europee del 6-9 giugno. Il segretario della Nato ha tentato di mantenere uniti i membri dell’Alleanza atlantica sul nodo dell’uso delle armi fornite all’Ucraina. I Paesi, che si sentono più esposti al pericolo rappresentato da Mosca, hanno accordato a Kiev il loro utilizzo in territorio russo; gli altri – tra cui l’Italia – no. La scelta è stata fatta dalle leadership di questi Paesi sulla base della paura e delle richieste della propria gente.

Senza entrare noi nello specifico e senza dare giudizi in merito ai contenuti, ma riportando semplicemente la pura cronaca, Jens Stoltenberg ha spezzato una lancia a favore delle richieste del presidente ucraino Zelensky che chiedeva mano libera sulle armi. Dal Cremlino Putin gli ha risposto secco: «Lo ricordo quando era primo ministro norvegese e ancora non soffriva di demenza». Ci si permetta solo una considerazione: trascinare tematiche così gravi sul piano personale non aiuta a trovare soluzioni. Anzi. Chissà perché abbiamo nostalgia dei grigi, ma illuminati, leader del passato!

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