Politica industriale, l’Italia è assente

ITALIA. Magneti Marelli di Crevalcore (Bologna) chiude. Un simbolo della produzione automobilistica segue il destino di un’industria che di italiano ha ormai poco. Il gruppo Marelli, tra i più avanzati nel mondo dei prodotti e sistemi di alta tecnologia nell’automotive, viene ceduto nel 2019 al fondo americano Kkr.

Per l’allora Fca e per gli azionisti una manna dal cielo. Hanno realizzato una plusvalenza di oltre un miliardo di euro. L’arrivo dell’elettrico ha reso in prospettiva il motore endotermico una produzione senza futuro. Il colpo d’occhio degli eredi Agnelli è quindi da manuale. L’arrivo dell’auto elettrica è un passaggio obbligato e prevederlo è certamente segno di preveggenza. Una saggezza che all’estero non hanno per esempio sempre avuto. A Zwickau, Volkswagen ha cancellato 269 posti di lavoro. Ancora peggio ha fatto Ford con 3.800 lavoratori da ricollocare nella sola Europa e Volvo ne annuncia 1.300. La rivoluzione green nell’auto colpisce duramente. Presa per tempo si può però gestire. Se si investe nella riconversione si può attutire il colpo.

È quello che succede nei grandi gruppi in Germania. Nel regno dei diesel si sono buttati pancia a terra. Volkswagen ha avviato un mega impianto per batterie in grado di fornire un milione di autoveicoli. L’ ha fatto in Canada dove fioccano i miliardi delle sovvenzioni statali. Il problema è che Fca invece di investire il ricavato nel passaggio all’auto elettrica ha pensato di fare cassa e di fornire un dividendo straordinario a Exor, finanziaria degli eredi Agnelli. Quindi il risultato è che il tessuto industriale si impoverisce, si perdono aziende e posti di lavoro.

Il capitalismo è anche questo e non c’è da dolersene. Spetta al governo avviare una politica industriale in grado di offrire ai privati opportunità di crescita. Soprattutto definire gli obiettivi che si vuole dare al processo di trasformazione. In Giappone è stato fatto. L’Italia ha un tessuto industriale composto da medie e piccole aziende che fungono da fornitori per i grandi gruppi. Vuol dire che si dipende da chi genera ordini dall’estero. La filiera produttiva che porta al prodotto finale compiuto e assemblato si interrompe ai confini nazionali. Sono rimasti in Italia ormai pochi gruppi di significato internazionale. Ce lo dicono le cronache economiche quotidiane. La telenovela di Tim nasce dal fatto che l’azionista di riferimento è il francese Bollorè il quale mette sul piatto il valore strategico dell’azienda per trattare al rialzo. Nella telefonia sono concentrati infatti tutti i cavi sottomarini che collegano l’Italia al mondo senza contare gli accessi internet per le strutture dello Stato e la custodia dei dati sensibili. Affidare il tutto in mani straniere è la pazzia che ha segnato la via italiana alle privatizzazioni. Ora il nuovo pretendente alla rete Tim è il fondo americano Kkr, proprio quello che in un batter di ciglia ha segnato per il 2024 la fine della Marelli di Crevalcore.

Poi abbiamo l’Ilva che produce acciaio, prodotto strategico per un Paese industriale. Passata nelle mani indiane di Arcelor, non riesce ad uscire dal buco nero dell’inquinamento e avviarsi alla decarbonizzazione. Ita, l’erede di Alitalia, sta passando alla tedesca Lufthansa e si spera possa fare adeguata concorrenza agli altri vettori per evitare situazioni di monopolio. Tutte questioni aperte che hanno in comune un denominatore: gli interlocutori sono tutte imprese straniere. Stellantis nell’automobile di italiano non ha neanche il nome, presidiata com’è dai francesi. C’è qualcosa di storto nello sviluppo industriale italiano. La sovranità degli Stati non si misura più ai confini. Si conta se si pesa e per evitare il declino industriale l’Italia deve prenderne coscienza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA