Polarizzare la politica
Un rischio da evitare

Il tempo di tornare dalle vacanze e la politica sarà inghiottita dalla campagna elettorale. Mancano ormai poche settimane al rinnovo delle amministrazioni dei più importanti capoluoghi d’Italia: da Roma a Milano, passando per Napoli e Torino. Basterebbe molto meno perché i partiti si tuffassero nella competizione elettorale per conquistare un trofeo da sventolare in faccia agli avversari in vista della prossima, decisiva prova delle politiche. Non fa niente se tra le due competizioni corre una grande differenza che ne rende imparagonabili i verdetti.

A ottobre si voterà col maggioritario, il rinnovo della legislatura con un sistema (più o meno) proporzionale. La differenza non è di poco conto. Con il sistema maggioritario, l’elettore è portato a esprimere un voto cosiddetto «utile», utile a decidere la sfida a sindaco della propria città. Tutto ciò favorirà inevitabilmente la polarizzazione del voto. Se chi vince si prende tutto (carica di primo cittadino e maggioranza consiliare), l’elettore è spinto a premiare, più che il partito, il candidato. Con il sistema proporzionale previsto per le politiche, al contrario, l’elettore sarà invogliato a premiare il partito di appartenenza, o comunque di riferimento. Risultato: dispersione del voto e correlativa frammentazione della rappresentanza parlamentare.

C’è da aspettarsi perciò che le attuali, pur evidenti differenziazioni, presenti nei poli di centrosinistra e di centrodestra, tenderanno nelle prossime settimane a essere ulteriormente silenziate in nome della riuscita dei candidati. Duplice il danno. Perché indurrà le forze in gara a validare il risultato ottenuto come indicativo di un trend che alle politiche non potrà che divergere. Perché spingerà le coalizioni a scommettere anche per le politiche sulla carta assai rischiosa della loro radicalizzazione.

Atteso come fossero elezioni di «mid term», nelle quali si misura il gradimento del governo a metà legislatura, il prossimo voto amministrativo finirebbe per svolgere ben altra funzione. Non servirebbe per niente a sincerarsi sull’apprezzamento che riscuote il governo in carica. Si tradurrebbe invece in singolar tenzone tra centrosinistra e centrodestra, vogliosi entrambi di avvalorare l’idea che il futuro dell’Italia si giochi solo, e unicamente, tra di loro.

Poco spazio sarebbe concesso a posizione terze. Nulla, o poco, sapremmo dell’Italia che si preoccupa solo di risollevarsi dal baratro della pandemia. Eppure, come si vede anche dal generale sbigottimento, misto a costernazione che gli italiani provano per la tragedia del popolo afghano, non è nelle posizioni estreme che sembrano riconoscersi. Non in chi condanna senza appello l’intervento militare in Afghanistan come guerra irrevocabilmente «sbagliata» (magari dopo aver votato a suo favore, come ha fatto Letta). Non in chi (Salvini e la Meloni) la considera ora una guerra da continuare dopo aver abbracciato un sovranismo isolazionista, avverso all’esportazione della democrazia.

È questa Italia contraria agli estremismi che rischia di essere penalizzata dal prossimo voto amministrativo, stretta com’è nella morsa dei due poli. È la stessa Italia che esprime apprezzamento per l’azione del «governo di unità nazionale». Ciò attesta che una scelta secca tra destra e sinistra risulta per molti un abito stretto, di cui però si sentiranno liberati alle politiche, quando col proporzionale potranno esprimersi liberamente. Gli strateghi dei due poli farebbero bene a non sottovalutare il ruolo di questa «minoranza silenziosa». Alla resa dei conti, potrebbe risultare determinante anche nell’imminente tornata elettorale per la riuscita di qualche candidato sindaco.

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