L'Editoriale
Domenica 05 Gennaio 2025
Piccoli comuni, quei tagli che ci riguardano
ITALIA. Nella lista dei «sacrificabili» della Finanziaria non mancano quasi mai i piccoli comuni. Urge un ripensamento nella loro gestione.
Nei mille equilibrismi della Finanziaria, che è poi la legge sulla quale si confronta in modo definitivo la misura della distanza tra Paese immaginato e Paese reale, ci sono vittime sacrificali che riemergono, puntualmente, come fiumi carsici, in quegli anni dove l’imperativo del «tirare la cinghia» inizia a scuotere i corridoi dei palazzi romani più o meno da fine novembre a metà dicembre. Inutile dire che il 2025 è uno di quegli anni, tra ritorno dei vincoli del Patto di stabilità europeo e effetti nefasti del superbonus. E purtroppo è superfluo anche chiarire che nella lista dei «sacrificabili» non mancano quasi mai i piccoli Comuni, quelli sotto i mille abitanti.
Il taglio ai fondi
E così, nell’ultima Finanziaria, ecco il venir meno dei contributi per le piccole opere. Non si trattava di grandi cifre: nel 2024, per esempio, erano 59mila euro per ogni Comune. Ma come fanno notare i sindaci, per micro realtà come i paesi di montagna erano contributi essenziali per la programmazione degli investimenti. Sapere che ogni anno lo Stato aiutava a coprire parte delle piccole manutenzioni del territorio (dalla scuola da ritinteggiare alla strada da mettere in sicurezza, in aree sempre più esposte alla variabilità degli elementi climatici), permetteva agli amministratori di pianificare, almeno sul breve periodo, quella forma di resistenza estrema che è il governo della cosa pubblica nelle aree interne. Se poi aggiungiamo al carico la prospettiva del progressivo spegnimento degli effetti benefici del Pnrr, il futuro si tinge di fosco. Guardiamolo, questo futuro, per un momento, dalla scrivania di un sindaco, che si trova a gestire territori spesso amplissimi, spopolati, che richiedono parecchi interventi di manutenzione, senza possibilità di esigere oneri e con scarsissime entrate fiscali. Attorno a lui, personale ridotto all’osso, quando non inesistente, con progetti che rimangono nel cassetto, perché sempre più spesso l’orizzonte è quello della mera sopravvivenza. Sullo sfondo, uno scenario in cui l’apparato burocratico anziché alleggerirsi, avanza inesorabilmente, mettendo a dura prova anche gli amministratori più entusiasti.
I segnali sempre più evidenti
Finché ce ne sono. Perché i segnali di una crisi vocazionale, nella rappresentanza politica delle piccole comunità, sono sempre più evidenti. Trascinate in parte dall’invecchiamento generale della popolazione, in parte da un generale disinteresse verso impegni a lungo termine (vedi alla voce crisi dell’associazionismo), le classi più attive occupano sempre più volentieri circuiti alternativi alla rappresentanza politica tradizionale.Il risultato è palpabile nella solitudine sconfortante di molti primi cittadini, ma anche nella crescente difficoltà, riscontrata anche nell’ultima tornata elettorale, a reclutare nuove leve (per fortuna ci sono anche delle magnifiche eccezioni).
Urge un ripensamento della gestione
Ecco perché è sempre più urgente un ripensamento sulla gestione delle aree interne nel nostro Paese. Dove ad una irrisoria autorevolezza politica si contrappone un peso demografico rilevante (ci vivono 13 milioni di persone, un quarto della popolazione italiana) e soprattutto un sistema valoriale e simbolico che nutre costantemente anche le comunità urbane, che in quelle periferie trovano e riscoprono le loro radici.
Ha detto il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, in un incontro tra i vescovi delle aree interne, la scorsa estate a Benevento: le aree interne «vanno aiutate non solo a conservare il passato, ma anche ad avere un futuro. Che poi vuol dire dare un futuro al nostro Paese… Il vantaggio delle aree interne è che spesso c’è più comunità che altrove, luoghi dove i legami che si rinsaldano e ci si ritrova». Questo è il patrimonio da salvare, non da sacrificare.
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