Perdere tempo
per capire

Due pagine che valgono un manuale e due parole prese da quella straordinaria cronaca che sono i Vangeli. Jorge Mario Bergoglio fa lezione di giornalismo nel Messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali numero 55 e concentra il metodo in due verbi «vieni e vedi», gli unici all’origine del mestiere, gli unici da conficcare nel cuore della passione di raccontare. Dovrebbero essere inchiodate sulla porta di ogni redazione del mondo. È un Messaggio perfetto nell’analisi e nei rimedi di ciò che oggi nell’informazione tutti denunciano e poi rimane sempre come prima. Giornali fotocopia, siti web tutti uguali, informazione preconfezionata, anzi «di palazzo», scrive il Papa, autoreferenziale, che non coglie né le cose che non vanno, né tantomeno le energie nascoste, positive e virtuose, tra le pieghe.

Alzi la mano chi non si è lamentato almeno una volta. Ma poi che ha fatto? Oggi si passa troppo tempo a trovare giustificazioni e colpe che sono sempre degli altri, della globalizzazione, di processi ineluttabili, di tecnologie malandrine, di competenze disinnescate dalle logiche delle lobby. Bergoglio spariglia le carte e mette di fronte ognuno alla propria responsabilità. Chiama ad una rivoluzione, al rovesciamento di modelli consolidati, dice basta alle scuse, ai pretesti, alle attenuanti. Se c’è qualcosa che non va nella comunicazione, se siamo arrivati al colmo della misura di un’informazione che tradisce gli uomini invece di migliorarli con un’azione «limpida e onesta», l’errore va cercato dentro noi stessi che abbiamo perso il significato del nostro operare, che abbiamo abdicato alla nostra responsabilità e ci accontentiamo del «già saputo».

Una bella botta, insomma, uno schiaffo che fa bene al giornalismo e all’intero processo della comunicazione. Mette in guardia sulle insidie e non solo quelle del web, dettate da troppa velocità e da scarsa capacità di verifica. Il punto centrale sta in una frase: «Perdere tempo per capire». E poi andare, camminare, vedere. Il Papa usa il consiglio principe del buon giornalismo, consumare la suola delle scarpe e non accontentarsi di quello che si vede dallo schermo di un computer. Oggi l’impresa è difficile, perché mancano i soldi, perché il potere, la propaganda, gli uffici delle pubbliche relazioni e la «bestia» che tende a governare la rete, iniettano paura nelle relazioni sociali o addirittura privano della propria libertà le persone più giovani e fragili portandole verso un limite che può avere conseguenze tragiche, e contestano ogni forma di controllo e verifica.

Il giornalismo che auspica il Papa è del tutto opposto perché non deve usare parole vacue, parlare all’infinito per non dir nulla, scrive Bergoglio riprendendo una frase del Mercante di Venezia di Shakespeare. Il giornalismo deve raccontare e smascherare, non accettare l’oblio come moneta di scambio, riequilibrare le emozioni e farlo con meno presunzione e più umiltà, con più studio e più fatica, gettando luce sui contesti, dove anche i particolari contano, dando ragione dei nessi, facendo chiarezza su chi fa cosa e perché.

Conoscere e raccontare i fatti, i valori, la moralità è cruciale in contesti di emergenza dove si tende a sfuggire alle regole e dove la questione delle fonti rischia di passare in secondo piano come accade con l’onda delle fake news sulla pandemia. Ma raccontare permette anche di diradare la nebbia dell’informazione sui vaccini solo per pochi o sulla rotta balcanica o sulla guerra in Etiopia, dove i giornalisti non sono i benvenuti, ma dove qualcuno va con coraggio.

Bergoglio nel Messaggio li ringrazia, perché c’è anche un giornalismo che protegge, che dà voce, aiuta gli uomini a riconoscersi fratelli, argina derive tragiche nel trattamento dei più deboli, siano essi malati o immigrati, un giornalismo tessuto di sacrificio, di ricerca, di responsabilità. Enrie Pyle uno dei più grandi reporter di guerra di tutti i tempi diceva «non mi pagano per essere obiettivo, ma per raccontare ciò che vedo». Venne ucciso da un cecchino nel 1945 durante la battaglia di Okinawa nel Pacifico. Lo piansero i soldati e le loro famiglie e non gli Stati Maggiori. Oggi lo piangerebbe Jorge Mario Bergoglio.

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