Per tutte le donne non giriamo lo sguardo

PER GIULIA. Giulia, che forza ci hai dato. Ci hai strappato dalla nostra zona di comfort, ci hai portati in piazza. È venerdì sera, fa freddo, ma non sarà mai come il freddo che hai sentito tu. È un risveglio atroce, ci hai scossi dal torpore del non vedere (o del far finta di non vedere), ci hai messo il cuore in subbuglio.

La violenza è tra noi, non è una fiction. Si annida nella quotidianità, nelle nostre case, tra le strade del quartiere, tra le persone cosiddette perbene. I dettagli dell’orrore che si aggiungono di ora in ora non sono di fantasia, sono reali, in carne e e ossa. Facciamo ancora fatica a rendercene conto, ma è così. Pensavamo di essere evoluti, di essere pronti, invece ci hai sbattuto in faccia la verità più cruda. Siamo incapaci di gestire le relazioni - uomo-donna, ma in generale con l’altro: di qualsiasi sesso, credo, origine sia, soprattutto se diversi dai nostri -, convinti che tutto sia dovuto e subito, che l’altro ci appartenga e debba essere a nostra immagine e somiglianza, inesistente nella sua libertà e autodeterminazione. Incapaci di affrontare l’abbandono, di diventare adulti, anche nei sentimenti: cediamo alle pulsioni, non riconosciamo più le emozioni. Eravamo in tanti a sfilare per la città. A prometterti che non sarai più sola, che la tua voce - quella preoccupata, dei vocali che mandavi alle amiche per dire che Filippo non lo sopportavi più ma non sapevi come lasciarlo perché temevi che si facesse del male, lui che il male poi l’ha fatto a te - risuonerà a lungo nei cuori di tutti. Come un campanellino che non ci farà più chiudere gli occhi, che non ci farà più girare la testa dall’altra parte (o peggio, accendere il cellulare per filmare senza intervenire) se qualcuno chiede aiuto.

Vogliamo essere presenti, a noi stessi prima di tutto e a chi ci circonda. «Voglio che tutti i giorni ognuno di noi si guardi nella propria vita e provi a fare anche solo un pensiero su quello che potrebbe fare per migliorarla, non nei propri confronti, ma in quelli della persona amata, delle persone vicine, degli amici e soprattutto delle donne. Fate un esame di coscienza. Dalla morte di Giulia voglio far nascere tante belle iniziative». L’ha detto tuo papà Gino, Giulia, alla cerimonia di inaugurazione di due panchine rosse contro la violenza sulle donne al dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Padova dove tu studiavi. Quanta dolcezza nelle sue parole, padre ferito. Vogliamo diventare esseri umani migliori, lo vogliamo diventare anche per te, che non siamo riusciti a proteggere. Lo vogliamo perché le giovani donne non abbiano paura a uscire la sera e a vestirsi con la gonna alla moda, a dire «no» quando è «no». Lo vogliamo perché i giovani uomini rispettino questi «no» e facciano i conti fino in fondo con «la tentazione maschilista che portano inevitabilmente e fatalmente dentro di sé», come dice lo psicanalista Massimo Recalcati, spezzando per sempre «la raffigurazione patriarcale di una minorità ontologica, cognitiva, morale della donna». In questi giorni il filosofo Umberto Galimberti ha ricordato che per Kant il bene e il male potremmo anche non definirli, perché ciascuno li sente e usa il verbo «sentire» naturalmente da sé. Per concludere amaramente: «Ma non è più vero che i ragazzi sentono naturalmente da sé la differenza tra il bene e il male». Per tornare a distinguerli - il bene e il male - torniamo a «investire» sull’educazione, che si fa a casa, a scuola, in oratorio, in strada, torniamo semplicemente a essere empatici, vicini, solidali, per evitare la deriva alle pulsioni primordiali. Perché Giulia, tuo papà ha ragione: dobbiamo farci un esame di coscienza, devi generare solo cose belle, come i tuoi disegni, come i tuoi sorrisi. Perché c’è un domani diverso da costruire, tutti insieme.

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