Per l’Europa equilibrio
sociale e crescita

Dopo i disastri economici e le atrocità provocati dalla Seconda guerra mondiale, la speranza di una pace finalmente duratura e di un’equanime sviluppo sociale che garantisse condizioni di vita più dignitose e ricche di prospettive per tutti furono alla base di un profondo, comune sentire del mondo Occidentale. Questo il pathos condiviso che diede vita, soprattutto in Europa, ad uno sviluppo progressivo dell’economia sostenuto da interventi governativi tesi a ridurre le disuguaglianze tra i redditi. Il progetto europeo si è inizialmente sviluppato in un clima culturale favorevole sia a politiche di protezione sociale e di welfare, sia all’introduzione di sistemi fiscali progressivi.

Il graduale, più o meno soddisfacente, assestamento del complessivo tenore di vita medio dei cittadini, ha col tempo attenuato la forza d’urto di tale ideale spinta collettiva. A partire dagli anni ’80 ha infatti avuto inizio una graduale inversione di tendenza, in presenza di una sempre più marcata affermazione del pensiero economico «liberista», il cui credo considerava e considera in parte ancora oggi le diseguaglianze quale naturale conseguenza dei processi di sviluppo. Da qui, la netta condanna a politiche d’intervento pubblico protezionistiche e redistributive, i cui costi produrrebbero perlopiù effetti negativi.

Lungo tale direttrice, a partire dagli anni ’90 si è mossa la politica economica della Comunità europea che, come testimoniato dai parametri di Maastricht, si è concentrata prevalentemente sulla necessità di assicurare nei vari Paesi gli equilibri di bilancio e il contenimento del debito. Dall’inizio del nuovo millennio tuttavia, la condizione di scarsa crescita ha stimolato in Europa un ampio dibattito istituzionale per riconsiderare alcune scelte di politica economica. A ciò hanno senz’altro contribuito autorevoli studi, di rimando Keynesiano, sulle relazioni tra disuguaglianze e crescita. È pian piano prevalsa così la convinzione che una forte concentrazione della ricchezza e del controllo delle risorse fosse d’impedimento allo sviluppo economico. Nell’ultimo rapporto dell’Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo viene detto: «Soprattutto le perdite ampie e persistenti di reddito per i gruppi a basso reddito coincidono con le fasi recessive». Quindi l’attenzione dei Paesi dovrebbe essere concentrata «su riforme delle politiche fiscali e previdenziali, che costituiscono lo strumento diretto per accrescere gli effetti redistributivi».

Sulla necessità dell’adozione di politiche di questo tipo si è già dichiarata la neo presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: «Voglio garantire che in una economia sociale di mercato ogni persona che lavora a tempo pieno possa avere un salario minimo che garantisca una vita dignitosa; bisogna riconciliare l’economia col sociale … l’economia deve essere di servizio alle persone». E ancora: «Dobbiamo lavorare nel patto di stabilità e crescita, utilizzare tutta la flessibilità permessa dalle regole». Posizione da lei ribadita anche nel recente incontro con il presidente del Consiglio Conte durante il quale, pur evidenziando la necessità di rispettare gli equilibri di bilancio, ha sottolineato l’urgenza d’interventi tendenti allo sviluppo dell’economia attraverso investimenti produttivi che favoriscano l’occupazione e limitino le diseguaglianze. A margine della sua visita romana, la von der Leyen ha inoltre ribadito l’intenzione di contrastare energicamente la «destra sovranista», facendo intendere che con l’insediamento e l’inizio dell’operatività delle nuove commissioni si possa aprire una nuova fase di rilancio del progetto europeo. Se così fosse e, soprattutto, se l’utilizzo della flessibilità si spingesse fino a non calcolare gli investimenti produttivi tra le spese di bilancio, si aprirebbero nuove, preziose opportunità di sviluppo economico anche per il nostro Paese.

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