Per Letta rebus alleati
Salvini controvento

La reazione dei partiti al voto è in genere fuori misura. O sono troppo trionfali (i vincitori) o troppo indulgenti (i vinti). Si capisce: è loro dovere galvanizzare la truppa nel momento della vittoria e confortarla in caso di sconfitta. Niente di male comunque in tutto ciò, se non fosse che l’eccesso di retorica può far loro prendere delle cantonate. Letta celebra il travolgente successo dei suoi a Milano, Bologna e Napoli, ma si dimentica dei centri medi e piccoli che sono la gran parte d’Italia. Qui il verdetto delle urne è stato molto meno generoso col Pd. Da parte sua, Salvini abbozza una (generica) autocritica per il passo falso accusato dal suo partito, ma s’illude che per risalire la china basti promettere scelte più tempestive dei candidati-sindaco, come se tutti i problemi della Lega (e della destra) fossero i tempi e non la qualità delle nomine effettuate.

Fuori dalla retorica di partito, il recente voto ha messo in luce processi di cui destra e sinistra farebbero bene a tener conto, se non vogliono andare incontro ad amare sorprese.

Il dato più rilevante è lo squagliamento del voto populista. Cinque anni fa, e, ancor più nel 2018, una massa imponente di elettori (quantificabile in circa il 40%) si era riversato su M5S e, in misura minore, sulla Lega. Quel terremoto elettorale era alimentato dal disprezzo per la politica. Al grido di battaglia «via la casta», «il popolo» si era rinchiuso in se stesso. Dai suoi governanti, dall’Europa, dal mondo intero s’aspettava solo danni. Fu il trionfo del populismo antipolitico e insieme del sovranismo.

Con l’epidemia il vento s’è girato. Il «popolo» s’è reso conto che da solo non può nulla, che non è più il tempo della protesta, ma del fare, che la politica è preziosa, come la competenza e la credibilità dei governanti. Cambiato il vento, il populismo s’è afflosciato. Ne han pagato il conto M5S e Lega: meno 30%. I loro elettori, o hanno trasmigrato o si sono rifugiati nell’astensione. Chi ne ha beneficiato maggiormente è stato il Pd. Il partito di Letta ha saputo offrire, meglio di tutti, nomi di amministratori comprovati e rassicuranti.

Il vento è cambiato, ma i problemi restano. Il segretario dem continua a tessere le lodi del «campo largo dei progressisti» perennemente in costruzione, ma i progressisti, a parte quelli strettisi intorno alla bandiera del Pd, latitano. L’unico apporto in vista è quello che può venire dal M5S. Peccato però che, vista l’emorragia di voti che il partito di Conte accusa, il Pd rischi un matrimonio con i fichi secchi. Difficile col 20/25% di consensi di cui a tutt’oggi dispone, racimolare una maggioranza nel prossimo Parlamento.

Letta, se non altro, ha capito la direzione del vento. Salvini, no. Lui continua imperterrito a procedere contro vento. Insiste a duellare con la Meloni per difendere la leadership della coalizione, che peraltro gli sta sfuggendo di mano. Sguarnisce in tal modo il centro, mentre dovrebbe sapere - come ben sanno i suoi governatori regionali - che senza la costruzione di «un campo largo dei conservatori» è difficile conquistare la maggioranza e, tanto meno, la premiership. Non è puntando sul sovranismo, infatti, che può vincere la partita della rinascita economica, ma sulla capacità di utilizzare proficuamente i fondi messi a disposizione dall’Europa, realizzando le riforme che ne sono la chiave d’accesso.

Una sinistra in debito di alleati e una destra arroccata nel fortino sovranista non si potranno lamentare poi se nella prossima legislatura sarà ancora Renzi - o Calenda - a dare loro le carte scongiurando in tal modo (piaccia o no) lo stallo del sistema politico.

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