Pd, percorso accidentato
verso il congresso

Il Pd, memore dei passi falsi che gli sono costati due rovesci (referendum costituzionale e voto del 4 marzo), si muove lentamente, cercando di non farsi del male. Come se scrutasse un orizzonte cupo, ma con l’idea comunque di giocarsela. Una fase politica proibitiva e contraddittoria, non priva di qualche paradosso: mentre i grillini pagano il prezzo di un’immaturità culturale e i costi dell’ingresso nelle istituzioni, la Lega, per contrasto, viene percepita come l’ultima risorsa di un salvataggio stabilizzatore. Un percorso in ogni caso accidentato per il Pd, dove la posta in gioco è la sopravvivenza del partito e, con questa, la qualità della democrazia nella stagione di una combinazione fra populismi diversi e distanti che non ha uguali in Europa.

Con il mandato del segretario Maurizio Martina giunto a termine, e con la novità più che annunciata di Marco Minniti in corsa per la segreteria, i dem aprono la fase congressuale. Quasi tutto è definito in vista delle primarie e vedremo se il diavolo si nasconde nei dettagli. Martina, all’assemblea nazionale di sabato, ha insistito su un percorso unitario, e non poteva essere altrimenti: tutta la condotta del leader pro tempore s’è consumata nel difficile equilibrio di tenere unito un partito ombroso, ritenuto scollegato dagli umori della gente comune e dei ceti popolari. L’ultima incognita rimasta riguarda proprio il futuro di Martina: si candida alle primarie, come sembrava quasi certo fino ai giorni scorsi, o non intende competere? Non è una variabile secondaria, specie per capire la nuova geografia che si va componendo nel pancione dem.

È un sentiero stretto per tutti, quindi anche per il segretario uscente, con tutti gli spazi correntizi ormai sostanzialmente occupati, tanto più che una parte dei suoi uomini è già sotto le insegne di Nicola Zingaretti, il primo a scendere in lizza. Per il momento la partita è fra il governatore del Lazio e l’ex ministro dell’Interno, un confronto nettamente identificabile nel suo essere alternativo. Entrambi, è vero, vengono dal Pci-Ds, ma hanno sensibilità diverse e compiuto esperienze differenti. Il Pd deve tenere insieme due prospettive: affidarsi ad una personalità che sia competitiva con chi governa, specie sui temi più sensibili e controversi come l’immigrazione, e che proponga un’alternativa sostenibile alla maggioranza sovranista.

Zingaretti, che ha dalla sua l’ala sinistra più Franceschini e probabilmente Gentiloni, s’è fin qui distinto per la sua esplicita rottura sia con il renzismo sia con l’impianto normativo della precedente legislatura. Si propone come uomo nuovo per recuperare ciò che si muove alla sinistra del Pd, a cominciare dai vari Bersani e D’Alema, per quanto faccia parte da sempre della nomenklatura di centrosinistra e abbia consumato al pari di tanti altri tutte le stagioni pre e post Ds. Minniti è sostenuto dai renziani, benché lo stesso Renzi sia attento a non mettergli sopra il cappello: il passaggio, con tutto quel che comporta, è certo carico di sottintesi ingombranti.

Tuttavia Minniti è innanzitutto Minniti, con due caratteristiche. La prima è che vive di suo, con un proprio peso specifico e, per certi aspetti, rappresenta l’ultimo erede della linea legalitaria del Pci berlingueriano nella versione del ministro dell’Interno «ombra», Ugo Pecchioli. La linea di Minniti, cioè il «realismo di sinistra» che, nel razionalizzare i flussi migratori (sicurezza e libertà, come dice il titolo del suo libro fresco di stampa), ha dimostrato come il governo di un’umanità allo sbando possa rivelarsi relativamente efficace senza essere illiberale. La distinzione con Zingaretti è che l’ex ministro si pone in diretta continuità con i governi precedenti (Letta, Renzi, Gentiloni) di cui ha fatto parte e di cui rivendica i meriti, andando semmai oltre lo stesso renzismo inserendolo in un quadro mutato.

Lo sbocco finale per i dem è capire se l’azione di contrasto va impiegata solo contro la Lega o anche nei confronti dei Cinquestelle. Martina ha parlato della necessità di un «corpo a corpo con la destra», dando l’idea di restringere l’area di manovra alla Lega. Il punto dirimente da chiarire è proprio questo. Lo stesso Zingaretti è stato ondivago, mentre la piazza degli scontenti va dai produttori agli studenti: il Pd considera i grillini una costola in libera uscita e recuperabile alla sinistra o un mondo, per sua natura e per i suoi codici, in conflitto irriducibile con il riformismo, quindi un avversario? Un terreno friabile, eppure decisivo, che chiama in causa, insieme con i vecchi tic, l’identità da ricostruire, la ricomposizione di mai sopite rivalità, la chiarezza di un antisovranismo riconoscibile.

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